Francesco Verderami per corriere.it
Alla fine, per capire i «giovanotti» della Terza Repubblica, viene bene un «vecchio» democristiano come Sanza: «Ai nostri tempi, per coprire un caso come quello che in Russia ha coinvolto Salvini, avremmo fatto finta di aprire una crisi. Per poi chiuderla subito».
E allora l’ennesima pantomima di ieri avrebbe un senso. Perché politicamente il quadro che il leader della Lega ha dinnanzi è chiaro: a livello internazionale è sotto attacco per via dell'«affaire Metropol»; a livello europeo è isolato e malgrado il successo del 26 maggio ha perso la possibilità di indicare il nome del commissario; a livello nazionale vede bloccati i provvedimenti del Carroccio; a livello territoriale avverte la crescente insofferenza della base e della dirigenza.
Ma la sua condizione di debolezza nei Palazzi stride con la forza che l’opinione pubblica al momento gli concede. E il partito preme perché non si perda «il momento», ancora ieri i ministri sottovoce sostenevano che si sarebbe aperta la crisi, perfino al Quirinale era giunta notizia di ministri del Carroccio intenti a fare gli scatoloni.
Ma all’acme della drammatizzazione, Salvini ha nuovamente frenato, e sul campo ha lasciato l’uomo più autorevole del suo partito, cioè Giorgetti, «usato» nel braccio di ferro sul commissario. Ieri il sottosegretario alla Presidenza si è recato dal capo dello Stato, per informarlo del suo passo indietro e per capire anche se e quali sarebbero le garanzie per il ritorno immediato alle urne qualora si aprisse la crisi.
Tuttavia nel Carroccio già conoscono le regole di ingaggio stabilite al Colle: la crisi andrebbe parlamentarizzata e toccherebbe a un altro gabinetto la gestione delle elezioni. Ecco il nodo più delicato per Salvini. Se è vero che l’«affaire Metropol» cela un gioco di spie e un «intrigo internazionale» ai suoi danni, e se è vero — come racconta un ministro del Carroccio — che «contro di noi oltre a certi servizi stranieri si stanno muovendo anche certe procure italiane», il titolare dell’Interno deve decidere come affrontare «l’offensiva»: meglio fronteggiarla in campagna elettorale o gestirla dal Viminale? Nei giorni scorsi, il ministro dell’Interno ha elogiato pubblicamente il capo della Polizia Gabrielli, «che spesso mi dà il buongiorno prima di mia figlia», proprio mentre il ministro Bongiorno, nei panni dell’avvocato, parlava della questione russa come di una «trappola».
luigi di maio nicola zingaretti
Ma alla fine tutto si riduce a una scelta di Salvini e palazzo Chigi lo aspetta al varco.I eri il premier ha avuto un colloquio riservato con Mattarella, riferito più tardi al presidente della Camera Fico. Conte (e Di Maio) immaginando già chiusa la finestra elettorale hanno iniziato a stringere l’alleato. E magari Conte ha iniziato a guardarsi intorno. Almeno così sostengono nella Lega dove si chiedono chi fosse l’autorevole esponente di una «forza d’opposizione» che è andato a parlare con il premier: «Certo non la Meloni e nemmeno Berlusconi». Per esclusione si è arrivati al Pd.
MATTEO RENZI E MARIA ELENA BOSCHI
«Love is in the air», cantava in Transatlantico l’ex ministro Boschi, alludendo a relazioni — a suo modo di vedere pericolose — tra esponenti del suo partito con i Cinquestelle. L’operazione però non coinvolgerebbe Di Maio, «il vero snodo è Conte», secondo l’ex vice ministro dem Giacomelli. Per farla saltare Renzi ha proposto la mozione di sfiducia contro il titolare del Viminale: così inchioderebbe i grillini, li costringerebbe a stringersi attorno al capo del Carroccio o a spaccarsi nel voto, in ogni caso — a detta del leader del Pd — «è un aiuto manifesto a Salvini». Un altro...