Ettore Livini per “la Repubblica”
«Guardi là come vola alta l’Aquila di Portela». Sambodromo di Rio, ore 3 della tiepida mattina di San Valentino. Il suono di tamborins e chocalos è assordante. Il maestoso rapace batte le ali meccaniche e levita lento sopra il carro, a 15 metri dal suolo, strappando l’ovazione dei 90mila spettatori assiepati sulle tribune disegnate da Oscar Niemeyer.
Una nube azzurra di figuranti ondeggia ai suoi piedi come mare in burrasca, aprendo la strada a un tempio egiziano tutto d’oro dove ancheggiano ballerine coperte solo di poche piume blu. La magia della sfilata dei Campioni del Carnevale carioca è sempre la stessa. I suoi conti però — come quelli di un Brasile arrivato alle Olimpiadi con il fiato cortissimo — non tornano più.
Nel 2009, l’anno della doppietta Mondiali- Giochi, il paese e la “festa più bella del mondo”, come la chiamano qui, sprizzavano salute da tutti i pori: «Le Olimpiadi ci porteranno tra i grandi del pianeta» recitava orgogliosa la brochure di presentazione della candidatura al Cio. Non è andata proprio così: l’economia, cresciuta a un tasso medio del 4,5% dal 2002 al 2011, ha iniziato a battere in testa, travolta dallo sboom delle materie prime e dalle spese un po’ allegre del primo mandato della presidente Dilma Rousseff.
I Mondiali di calcio sono andati in archivio con una sconfitta (7-1 contro la Germania) diventata trauma collettivo. E nel 2015, micidiale, si è scatenata la tempesta perfetta: il pil è crollato del 3,7%, il real si è svalutato del 35%, l’”Operazione autolavaggio” ha messo sotto inchiesta (e spesso in galera) 37 parlamentari e il gotha industrial-finanziario nazionale.
E il Parlamento, dulcis in fundo, ha chiesto l’impeachment di Rousseff, accusata di aver truccato i conti pubblici. Un filotto di guai che ha convinto S&P e Fitch a declassare a “spazzatura” il debito del paese e ha messo ko — proprio alla vigilia delle Olimpiadi — sia il Brasile che il suo Carnevale.
Il Sambodromo, malgrado musica e colori, non è sfuggito all’austerity collettiva. «Gli sponsor sono in fuga, lo Stato ha tagliato i fondi e siamo al collasso», si lamenta Junior Schall, direttore della scuola di ballo della Mangueira, fresca trionfatrice delle sfilate 2016. Il team verde-rosa è riuscito a far quadrare i conti riducendo da sette a sei i carri allegorici, sforbiciando da 5 a 4mila i figuranti e sostituendo il velluto — costosa materia prima dei costumi — con materiali low-cost.
Di far festa però, con questi chiari di luna, non c’è molta voglia: «Le vendite sono crollate del 30%» calcola Olga Valles, padrona del Condal, il paradiso di maschere e travestimenti di Rio. Portoferreira e Campinas, rimaste senza aiuti pubblici, sono state costrette addirittura a cancellare i loro Carnevali.
Nel paese tira la stessa aria. Il braciere olimpico verrà acceso tra sei mesi, ma l’ottimismo del 2009 è un ricordo lontano. I numeri parlano da soli. Nel 2015 sono andati in fumo 1,5 milioni di posti di lavoro. Il pil perderà quest’anno un altro 3,3%, messo alle corde dai guai della Cina (grande partner commerciale del Brasile) e dal crollo delle materie prime (il 40% dell’export nazionale). La popolarità di Rousseff è sprofondata dal 41% di inizio 2014 al 12% di oggi.
E lei naviga a vista: poco più di un anno fa si è reinventata falco dell’austerity, affidando il ministero dell’economia a Joachim Levy — un liberista ortodosso soprannominato “mani di forbice” — autore di un piano di tagli da 18 miliardi. «Tutti abbiamo capito che sarebbe durato poco — dice Suzanne Doca, elettrice del Pt (la formazione della presidente) bevendo un cocco gelato a un chiosco di Ipanema -. La sinistra del Partito non poteva sopportarlo. E il suo voto è fondamentale nei prossimi mesi per evitare l’impeachment». Infatti: Levy ha dato le dimissioni a fine 2015. E Dilma ha consegnato la poltrona alla colomba Nelson Barbosa, che ha fatto infuriare i profeti del rigore fiscale sbloccando 20 miliardi di credito alle imprese per rilanciare l’economia.
la presidente brasiliana dilma rousseff
«Il problema — continua Suzanne — è che la crisi dell’economia si è sovrapposta a una drammatica crisi morale». L’immagine più plastica di questo cocktail micidiale sono i due enormi cartelloni pubblicitari davanti al villaggio degli atleti di Barra. Odebrecht e Camargo Correa, c’è scritto sulle insegne, i grandi costruttori del boom economico (Giochi compresi) che hanno visto i loro vertici spazzati via dall’inchiesta sui fondi neri girati dal colosso petrolifero Petrobras ai politici.
«I 6,2 miliardi di tangenti trovati finora sono solo la punta dell’iceberg, la corruzione è endemica », dice Deltan Dallagnol, il pm che con il giudice Sergio Moro ha lanciato da Curitiba la “Mani Pulite” che sta facendo tremare l’estabilishment nazionale. «Chieda a qualsiasi ragazzo della mia età. Moro e Dallagnol sono gli unici di cui abbiamo ancora fiducia — dice Joao Pereira, 23enne studente di economia —. Alla politica non crede più nessuno».
I prossimi sei mesi da qui alle Olimpiadi saranno così da brividi. La presidente sta provando a rifarsi un’immagine guidando la crociata anti-Zika. La sua speranza è che l’impeachment (come probabile) non vada in porto, le materie prime risalgano la china, il mini-real spinga le esportazioni e i dati migliori del previsto sulla fiducia delle aziende di inizio 2016 si consolidino quanto basta per rialzare la sua popolarità prima delle elezioni presidenziali del 2018.
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Risalire dal baratro in cui è sprofondata — trascinando con sé il Paese e le notti colorate del Sambodromo — sarà però un’impresa tutt’altro che semplice.
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