I carabinieri Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano, imputati nel processo sui presunti depistaggi che sarebbero seguiti alla morte di Stefano Cucchi, hanno chiesto di costituirsi parte civile contro i colleghi Luciano Soligo e Francesco Cavallo. Secondo i legali, infatti, i due militari dell’Arma avrebbero eseguito un ordine arrivato dai superiori: “L’ordine fu dato – hanno spiegato i difensori – da chi insistendo sulla modifica sapeva qualcosa di più. Loro hanno subito un danno di immagine, da questo punto di vista sono nella stessa condizione degli agenti penitenziari”.
Il loro avvocato ha riferito il pensiero dei due imputati: “Non sapevamo del pestaggio. Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi. C’è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo. Oggi sappiamo tutto e per questo abbiamo deciso di costituirci parte civile. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l’abbiamo subita, erano ordini”.
Per i depistaggi che sarebbero seguiti alla morte di Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, sono imputati il generale Alessandro Casarsa – all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma – e altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto carabinieri sono accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Il dibattimento si svolgerà davanti alla giudice Giulia Cavallone che ha deciso di vietare le riprese video del processo perché “il diritto di cronaca viene già garantito dalla presenza dei giornalisti in aula”.
Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, allora maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunnia. Colombo Labriola e Di Sano, invece, erano rispettivamente comandante della stazione di Tor Sapienza e carabiniere scelto in servizio nella stessa stazione.
Secondo quanto riferito dall’avvocato di Di Sano, Soligo gli disse: “Adesso non parti e modifichi l’annotazione di servizio”. Di Sano avrebbe spiegato che “quel giorno in cui eseguì la modifica era in partenza per la Sicilia, ma fu contattato da Soligo affinché prima eseguisse la modifica richiesta”. “Non c’è alcun falso – ha proseguito l’avvocato – Labriola e Di Sano non sapevano niente del pestaggio e Colombo Labriola non ha mai incrociato Cucchi. Inoltre, se non avessero eseguito gli ordini sarebbero stati puniti con reato militare che prevede la reclusione, per disobbedienza militare”.
Secondo la ricostruzione dell’accusa, Cavallo “rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest’ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato”. Soligo, invece, “veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che “Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidità della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi”.
Per la morte di Cucchi, nel filone principale dell’inchiesta che ha squarciato un silenzio durato quasi 10 anni, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di aver pestato il geometra di 31 anni dopo averlo arrestato, sono stati condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale. I giudici della Corte d’assise di Roma hanno assolto da questa accusa l’imputato diventato teste dell’accusa Francesco Tedesco, che nel 2018 decise di parlare e di raccontare quanto aveva visto nella caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio.
A lui sono stati inflitti 2 anni e sei mesi per falso. Il maresciallo Roberto Mandolini, il comandante della Stazione Appia dove fu portato Stefano, è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per la falsificazione del verbale di arresto. Assolto Vincenzo Nicolardi che rispondeva di calunnia, poi riqualificata in falsa testimonianza.