THERESA MAY JEAN CLAUDE JUNCKER
La premier britannica, Theresa May, annuncia che da ora in poi sarà lei «personalmente» a guidare i negoziati sulla Brexit con Bruxelles, entrati ormai nei mesi finali e tuttora in una fase delicatissima. Il neoministro per la Brexit Dominic Raab, al quale finora spettava questo compito, assisterà May su questo dossier come vice.
«Guiderò i negoziati con l'Unione europea, con il segretario di Stato per la Brexit Dominic Raab che farà le mie veci», spiega May in una dichiarazione scritta indirizzata al Parlamento. «È essenziale che il governo si organizzi nel modo più efficace per permettere al Regno Unito di uscire dall'Unione europea», afferma May. Il Regno Unito rimarrà soggetto alle leggi Ue fino alla fine del 2020, quasi due anni dopo la data ufficiale della Brexit, fissata per il 31 marzo del 2019 come stabilito nel nuovo Libro Bianco, reso noto martedì dalla premier.
La divisione dei poteri
La definizione delle strategie sarà affidata al suo consigliere Ollie Robbins: è previsto, infatti, «il supporto della European Unit» costituita a Downing Street «sotto la guida di Robbins, alto funzionario di grande esperienza», la quale avrà peraltro un ruolo guida di coordinamento sulla definizione della piattaforma negoziale (qui l'editoriale di Luigi Ippolito: «L'illusione chiamata Brexit»). Lo stesso Raab aveva dichiarato già esplicitamente nei giorni scorsi ai Comuni, subito dopo la nomina, di aver accettato un ruolo vicario rispetto alla premier in questa fase sul cruciale dossier del Brexit. Quindi con poteri decisionali inferiori rispetto al suo predecessore, David Davis.
«No alla proroga dei negoziati»
Settimana scorsa la premier aveva lanciato un doppio messaggio in Parlamento, rispondendo al Question Time e all'attacco del leader dell'opposizione laburista, Jeremy Corbyn: agli anti-Brexit aveva ripetuto che «non ci saranno proroghe sui tempi del divorzio e sulle scadenze previste dall'articolo 50 sul recesso dall'Ue». Ai Tory euroscettici del suo stesso partito, invece, ribadito che un accordo di uscita fosse nell'interesse del Paese e dovesse essere «un accordo attuabile».