Domenico Quirico per “la Stampa”
Tra le mille ferite che questi giorni di guerra ci infliggono, e non finirà fino a quando anche solo una di esse continuerà a sanguinare, una cosa mi colpisce più di altre: le file di fuggiaschi ammassati tra le rovine nell'attesa che si aprano quelli che chiamano corridoi umanitari, la possibilità cioè di uscire dalle città che i russi stringono d'assedio per raggiungere zone più sicure.
Si resta trafitti dallo sguardo di questi fuggiaschi usciti dalle cantine e dai nascondigli, li immagineresti assetati di luce con sul volto la gioia della liberazione vicina. Invece gli sguardi sono vaghi, torbidi, così diffusi che non si fissano su niente, non si fermano su niente. Lo sguardo dei profughi. Non si fidano dei russi. Hanno ben motivo di non fidarsi perché li conoscono ormai meglio di noi. Sono capaci di tutto, pensano, loro sono pieni di forza e di sicurezza mentre noi, noi che aspettiamo qui, non abbiamo niente. Viviamo sulla lama del coltello, ci bilanciamo da un minuto di speranza a un altro minuto di speranza, da ore siamo qui allo scoperto, in equilibrio sulla lama del coltello.
Ci tengono ben stretti al loro morso, due parolette sole e la nostra speranza è di nuovo andata al diavolo, ci lascerà un'altra volta per chissà quanti giorni, forse per sempre è ai russi che appartiene la nostra vita, agli invasori. Questa gente non è più sorretta nemmeno dal sentimento che sempre si forma in una città assediata, in mezzo alle mille cose che rattristano e minacciano la vita: l'emozione. Sì. L'emozione di arrischiarsi nelle strade sotto il tiro del cannone, vivere in questo continuo subbuglio di una guerra che ti circonda, senti che ti tocca, di essere sempre con il cuore in gola.
Ma questo era all'inizio, dieci giorni fa che pesano come mille anni. In una foto solo una bambina innocentemente distesa su una coperta dormiva serena, e stanca, la bocca aperta in un sorriso. E si immagina al risveglio lo strazio dell'accorgersi che la salvezza annunciata era rimasta un fantasma. La strada dietro di lei, tra file di case danneggiate, di negozi divelti, è popolata da una moltitudine di cose perse, disseminate sul selciato nell'ultima febbrile scelta prima di scavalcare solo con il necessario la linea della salvezza. Un paio di scarpe nuove, lucide, mi raccontano tutta una storia.
Finora, dopo ore, la speranza implacabilmente si spegne. Scende il buio, che li riporta indietro, li sprofonda, per così dire, nel passato. Per oggi non c'è più speranza di partire, errano per gli oscuri isolati senza più riconoscerli. Come in un rituale feroce, beffardo. Perché i combattimenti nella zona, contrariamente agli accordi tra le due parti, non sono stati rispettati e gli autobus che devono caricare donne e bambini sono stati avviati in un settore sempre pericoloso.
O perché i russi hanno ordinato di avviarsi in corridoi che portano verso i territori da loro controllati e non in Ucraina. Già sono pronti i comunicati che si rivolgono accuse reciproche di aver violato i patti. Sembra accertato che responsabili della maggior parte dei fallimenti siano i militari russi. D'altra parte la imposizione di dirigere i fuggiaschi verso i propri territori è un evidente sabotaggio preventivo.
Allora mi sono chiesto: perché? Una crudeltà gratuita? Mostrare agli indomabili ucraini che la ostinazione a combattere può solo portare alla fame e alla morte dei loro cari, che non c'è salvezza se non nella resa? La guerra è crudele ma la crudeltà è sempre legata a una strategia, a un progetto tragicamente razionale. In questo terzo millennio, malgrado tutti i discorsi sul progresso, i tanti trattati per disciplinare anche la guerra con il suo contrario, cioè le regole e un diritto, la forza bruta può esercitarsi e prevalere come ai tempi degli assiri. I russi impediscono agli abitanti delle città assediate di andarsene perché gli servono, sono un pezzo della loro strategia. Semplici pedine umane.
Sono il contrario degli scudi umani usati da molti dittatori per difendersi: questi civili disarmati servono a inchiodare i difensori, a indebolirli. Se i civili lasciassero le città gli ucraini potrebbero, senza ostacoli, mettere in atto la strategia più pericolosa e costosa per gli assedianti: liberi dalla necessità di non coinvolgere i civili nella brutalità della battaglia strada per strada, dove non si fanno distinzioni e prigionieri, senza più l'obbligo di riservare e procurare loro cibo, acqua, medicine sempre più rare, potrebbero trasformare la città in un gigantesco e micidiale fortino.
Se i russi, impotenti, furibondi per il tempo che passa invano, decidessero di usare aviazione e artiglieria in modo ben più massiccio di quanto fatto finora per radere al suolo una città ora popolata solo da combattenti, costruirebbero con le loro mani per i difensori un perfetto terreno di battaglia. Tra le rovine, i carri armati non possono muoversi con facilità e sono vulnerabili, ogni maceria è un nascondiglio per i cecchini.
Per questo a Stalingrado i civili vennero rapidamente messi in salvo prima dell'arrivo dell'armata di Von Paulus. Stalin non aveva certo pietà degli esseri umani: aveva bisogno di un cimitero di macerie vuote in cui inghiottire i soldati tedeschi. I generali di Putin invece hanno bisogno che i civili, le donne, i vecchi, i bambini restino nelle città, in ostaggio, siano impaccio, rimorso, senso di colpa dei difensori.
È il contrario di quanto è avvenuto in Siria; ma gli scopi della guerra civile di Bashar al Assad erano molto diversi da quelli di questa guerra di Putin: il dittatore siriano non vuole soltanto vincere, voleva disporre quando il conflitto finirà e lui sa attendere con spietata pazienza, di un deserto in cui non ci siano più oppositori incerti.
UCRAINA - PALAZZO SVENTRATO DA UN MISSILE
Non può ucciderli tutti; ma può costringerli ad andarsene, senza bloccarli, dal suo gigantesco Paese prigione. In sei milioni sono fuggiti. Alla fine potrà regnare su una Siria in cui restano soltanto coloro che gli sono legati da vincoli etnici e religiosi o che hanno combattuto al suo fianco e che non ne contestano il potere. I profughi non gli servono, sono immondizia umana che può gettar via. Le guerre sono malattie in cui si usano folle intere, sereni in coscienza, in una raccapricciante aritmetica. Qui si condanna, là si lascia fuggire: come si segna il destino degli alberi in un bosco.