Lettera di Caterina Malavenda al “Corriere della Sera”
Caro direttore, il giudice penale non dovrà più occuparsi di stabilire se, nell' apostrofare qualcuno con epiteti sgradevoli, lo si è offeso. Basta sentenze che disquisiscono, spesso con una certa eleganza, sulla rilevanza penale di espressioni tutt' altro che eleganti, per accertare se dire ad una signora «stai zitta che sei un cesso» o mandare al diavolo il vicino e, persino, apostrofare il rivale, chiamandolo fedifrago e fellone, meriti una condanna o sia da tollerare, rientrando nella progressiva ed inarrestabile degenerazione del linguaggio che qualcuno, con garbato eufemismo, definisce desensibilizzazione.
In un Paese in cui condomini e automobilisti, allenatori e calciatori - soggetti, però, ancora alle sentenze del giudice sportivo -, politici ed imprenditori non perdono occasione per insultarsi, il reato di ingiuria è stato depenalizzato, riducendo il carico del contenzioso penale. Da oggi, la materia passa al giudice civile, cui già per la verità poteva ricorrere, affrontando però una qualche spesa, chi non voleva far querela, un atto che, invece, non costa nulla; e che potrà liquidare i danni a favore della vittima, oltre che una sanzione pecuniaria, a favore delle casse dello Stato da cento a dodicimila euro, a seconda della gravità dell' offesa.
FRANCESCHINI INSULTATO AL RISTORANTE
Dunque, senza farne una questione di classi sociali, chi è ricco o molto povero potrà ingiuriare chi vuole, pagando il dovuto o sfuggendo, per mancanza di materia prima, alle procedure esecutive, salvando in entrambi i casi la fedina penale. Chi ha subito l' ingiuria, per converso, dovrà affrontare delle spese, senza la certezza di recuperare un euro e né la soddisfazione di far appiccicare a chi lo ha offeso, abbiente o meno, l' etichetta di pregiudicato, non sempre un handicap, ma comunque un fastidio.
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È vero che in un Paese di maghi e fattucchiere è stato depenalizzato l' abuso della credulità popolare e, facendo felici esibizionisti e praticanti dell' amore all' aperto, anche gli atti osceni in luogo pubblico, ma sulla liberalizzazione dell' ingiuria sarebbe stato meglio riflettere di più, anche per evitare l' irridente tripudio degli ingiuriatori di professione.
Cosa fatta capo ha, ma la decisione rischia di avere anche conseguenze forse impreviste o trascurate. L' ingiuria, infatti, è l' altra faccia della diffamazione, che continua ad essere reato: lo stesso insulto è diffamatorio, se il destinatario è assente, ma è ingiurioso se, invece, è presente o se gli viene rivolto direttamente, ad esempio, per lettera o telefonata, il che genera curiose stranezze, ora che l' ingiuria è stata depenalizzata.
Non potrà essere, infatti, condannato chi dovesse apostrofare, con un epiteto sanguinoso, in uno stadio stracolmo e in diretta tv, l' avversario che lo ha appena dribblato, mentre incorrerà nella severa sanzione penale chi abbia parlato male dell' amica assente, con pochi intimi.
E non tragga in inganno l' idea che la diffamazione sia più grave, perché destinata a raggiungere, in alcuni casi, un numero elevato di persone, visto che anche l' ingiuria può avere questa caratteristica, oltre che nell' esempio fatto, anche ove venga utilizzato Internet e la persona offesa sia, ad esempio, fra i numerosi destinatari di un unico messaggio denigratorio.
A parità di condizioni, dunque, due discipline diverse, con effetti stranianti, specie ora che il Parlamento sta per approvare la legge che limita alla multa la pena per i diffamatori, chiaro indice della sopravvenuta scarsa gravità del reato, in ciascuna delle sue forme. E allora, come mai non si è proceduto a depenalizzare anche questo reato, nonostante i possibili profili di incostituzionalità, per violazione del principio di uguaglianza, che la decisione opposta presenta?
Una domanda alla quale potrà rispondere solo la Corte costituzionale, alla quale si rivolgerà il primo imputato per diffamazione cui verrà in mente di formularla.