Marzio Breda per il “Corriere della Sera”
sergio mattarella a ravenna nel centenario dell'assalto squadrista alle cooperative 6
«La democrazia nasce dalla diffusa coscienza della responsabilità di ciascuno nella difesa delle comuni libertà. È stata una conquista di popolo. Va rigenerata ogni giorno coinvolgendo i giovani».
Sergio Mattarella ricorre ancora una volta alla pedagogia della storia, ricordando gli eventi che precedettero la marcia su Roma, nel 1922, cui seguì il progressivo infeudarsi del fascismo. Non usa toni da comizio, nell'evocare l'assalto alla Federazione delle cooperative di Ravenna compiuto dagli squadristi.
MELONI - SALVINI - BERLUSCONI - FASCIOSOVRANISTI
Quell'episodio, che toccò i rami bassi della società forse più di altri fatti di rilievo istituzionale, lo ha scelto perché le camicie nere ne fecero un modello per «dare agli avversari il senso del terrore», come scrisse Italo Balbo, regista del raid. Una sfida che Mussolini vinse grazie a violenze e distruzioni, ma soprattutto grazie all'inerzia dello Stato, incapace di neutralizzare il suo disegno.
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Ne uscì compromessa la democrazia liberale e, per esempio a Ravenna, l'esistenza dei «corpi intermedi», cioè le formazioni sociali. Mattarella sintetizza come si aprì quel «ventennio drammatico che vide prevalere le dittature in Europa, preludio del Secondo conflitto mondiale». Poi, scavallati il regime, la lotta di liberazione e la ricostruzione, si lancia in una doverosa «lezione di coraggio e fiducia», come lui stesso la definisce. «La storia è parte di noi.
È alle fondamenta della cultura, degli ordinamenti, dei valori in cui ci riconosciamo e che costituiscono l'asse portante della società. La libertà di cui godiamo, la democrazia che è stata costruita, l'uguaglianza e la giustizia che la Costituzione ci prescrive di ricercare sono tutte figlie di una storia sofferta e di generazioni che le hanno conquistate con dolore, sacrificio, impegno, consegnandole alla nostra cura affinché possiamo trasmetterne il testimone». È un memorandum che il capo dello Stato ha ribadito spesso.
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Oggi però, in questa campagna elettorale giocata anche sulle identità ideologiche e su quanto sopravviva della matrice fascista nella politica italiana, qualcuno potrebbe esser tentato di interpretare con una forzatura queste parole. Sarebbe sbagliato, perché questo è il Dna della Repubblica ed è dovere di un presidente rammentare «il buio del fascismo». Indipendentemente dal calendario della politica.
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Del resto, si spera siano passati i tempi in cui Berlusconi (e trascuriamo diversi altri) riabilitava (sul giornale inglese The Spectator ) il «Mussolini buon dittatore», che «non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente a fare vacanza al confino». Costringendo Ciampi a correre sulla tomba di Giacomo Matteotti, «per ripristinare la verità della storia».
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