Carlo Bertini per la Stampa
I veleni scorrono a fiumi nel Pd, sui social, sui cellulari, nei capannelli: «Se Renzi lascia al governo Franceschini, Delrio o Orlando, un minuto dopo si trova da solo nel partito, da noi funziona così», sibilano acidi gli uomini di Bersani. In tivù D' Alema non è da meno: «I rottamati da Renzi a cui non è stata concessa neanche una dignitosa sepoltura hanno dimostrato di saper dare filo da torcere», ghigna l' ex premier.
La partita interna si fa dura assai. Per questo il primo pressing, quello più discreto e più energico, lo ha esercitato l' altra notte, non in solitaria, Dario Franceschini: fermando Renzi - così raccontano - dall' istinto di dimettersi anche da segretario del Pd. Un istinto che il leader ha tenuto a freno ma che preoccupa i peones di ogni ordine e grado, terrorizzati di restare nella barca che fa acqua senza timoniere.
Il secondo pressing lo hanno esercitato quelli del «giglio magico», fiorentini come Davide Ermini e Andrea Marcucci, spalleggiati pure dai franceschiniani, per spingere Renzi verso una rivincita, una ricandidatura alle politiche, per non buttare alle ortiche il patrimonio di voti conquistato.
Tanto che il tweet lanciato ieri pomeriggio da Luca Lotti, braccio destro del premier, fa tornare il sorriso ai depressi: quel «ripartiamo dal 40%» citando il 40% dei voti alle primarie perse con Bersani nel 2012, e il 40% delle europee del 2014, fa capire bene l' antifona. Il leader non molla, anzi è pronto a giocare il secondo tempo, quelle delle politiche, convinto di potercela fare.
Ma il maremoto nel Pd può essere un ostacolo. Tanto che i pasdaran, come Alessia Morani, vorrebbero andare al voto subito in primavera, a marzo se possibile, senza farsi scavalcare da Salvini e Grillo che vogliono le urne senza passare dal via di una nuova legge elettorale. Un ragionamento che tradotto porta dritto ad un' altra forzatura, quella di votare senza fare prima il congresso Pd, quindi senza mettere in gioco la leadership di Renzi. Con la scusa che ora il clima è tale che «se andassimo al congresso finirebbe a cazzotti», dice al telefono un dirigente ad un altro big della stessa regione rossa. A dare l' idea di quanto poco siano tollerati i compagni del No dai gruppi al comando in circoli e sezioni: il rischio di congressi provinciali scossi da risse non solo verbali e scambi di insulti è quantomai concreto.
Ma a parte il congresso, che molti invece considerano obbligato prima del voto, i renziani concordano sul bisogno di blindare il partito: ovvero di non darlo via ad un «reggente» che traghetti il Pd nel rapporto col governo e fino alle assise, «perché in quel caso non daresti più le carte e sarebbe rischioso».
La Direzione di domani si terrà in questo clima. Se Bersani ora dice «prima il Paese e poi il partito», senza premere per un congresso anticipato, «non facciamo il suo gioco, mettiamo in sicurezza il governo e facciamo un confronto serio nel Pd, non un votificio», può esser preso in parola da chi nell' entourage del premier questo congresso lo farebbe dopo le elezioni politiche: magari per non dare alla minoranza l' occasione per potersi contare e avere poi diritto a quote precise nelle liste elettorali.
Quel che emerge, al di là della voglia di rappresaglia dei renziani, è che neanche la sinistra scalpiti per un congresso a gennaio: chiedete a Renzi un passo indietro dalla segreteria? «No, chiediamo che il Pd cambi rotta sulle questioni sociali», risponde Roberto Speranza dopo un colloquio con Bersani. Piedi di piombo, è la linea dell' ex leader, andare di corsa ai gazebo non serve, c' è tempo, non si voterà in primavera.
Poi però punge: «Un messaggio per Matteo? Stai sereno». D' Alema suona lo stesso spartito: «Se Renzi si dimettesse dovremmo fare il congresso ora in un clima avvelenato. Dovremmo invece cercare un terreno di ricomposizione delle nostre forze».