Federico Rampini per la Repubblica
È un trattamento speciale quello che Barack Obama riserva al presidente del Consiglio. Per motivi legati al calendario politico americano, quella di ieri sera è stata l’ultima cena di Stato che la Casa Bianca ha organizzato per un leader straniero, sotto questo presidente. Dopo questa non ci saranno altre cene di Stato prima dell’addio di Obama. Era quindi un omaggio ambito. Le cortesie verso Matteo Renzi abbondano.
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Non è una forzatura constatare che esiste un asse speciale Stati Uniti-Italia. Almeno fino al 20 gennaio 2017, Inauguration Day in cui prenderà possesso della Casa Bianca chi avrà vinto le elezioni dell’8 novembre. Le ragioni di questa intesa vanno spiegate perché qualcuno non le riduca a una sgradevole interferenza in vista del referendum. Il feeling per Renzi è più antico e ha diverse spiegazioni.
Una prima spiegazione è in negativo, deriva dal venir meno di altre relazioni preferenziali. Il Regno Unito, titolare della “special relationship” dai tempi di Roosevelt-Churchill, si è auto-ridimensionato con Brexit, come interlocutore Londra è meno utile perché la sua influenza in Europa è in declino. Con la Germania c’è da anni il nodo dell’austerity che Obama considera un disastro, come ha ribadito nell’intervista a Repubblica.
obama e merkel recitano involontariamente sound of music
Cominciò a dirlo ad Angela Merkel al G20 di Pittsburg nel 2009: i fatti hanno dato ragione a Obama, eppure la Merkel non ha veramente cambiato dottrina. Verso la Francia rimane il risentimento per l’avventura in Libia, dove Obama ritiene di essersi lasciato trascinare da Sarkozy commettendo un errore: lo ha detto in modo esplicito in un’altra intervista recente, alla rivista The Atlantic. Inoltre Washington non scommette molto sulla rielezione di Hollande. Con la Turchia, un alleato Nato sempre più infido e riottoso, il rapporto è ai minimi storici.
aris messini fotografa i migranti dalla libia 7
Nella sponda Sud dell’Europa, nei rapporti con il Nordafrica e il Medioriente, l’Italia è sempre stata un pezzo cruciale del dispositivo strategico americano. Oggi lo è a maggior ragione per l’emergenza profughi, il caos in Libia, la guerra in Siria, temi su cui Obama si è soffermato nell’intervista. L’Egitto, pur rimanendo un alleato degli Stati Uniti, dopo il golpe militare è un interlocutore problematico, sulla cui stabilità non si può scommettere all’infinito. In più Obama ha la sensazione che sui dossier nordafricani e mediorientali non ci siano “doppiezze italiane”. È una differenza rispetto ad una lunga stagione della politica estera italiana, quando per buona parte del dopoguerra – da Mattei (Eni) a Craxi passando per Andreotti – Washington sospettava ci fossero “agende nascoste” da parte italiana.
È il dossier sul quale le affinità elettive sono più evidenti. L’interesse è reciproco: Renzi è sempre in cerca di una sponda politica per bilanciare lo strapotere tedesco in Europa; Obama a sua volta cerca interlocutori europei disposti ad ascoltare le virtù della ricetta neo-keynesiana con la quale gli Usa sono usciti dalla crisi.
Draghi, Barack e Michelle Obama
Poiché c’è un italiano alla guida della Bce, Obama “include” nell’asse con l’Italia anche il giudizio positivo su Mario Draghi, il cui “quantitative easing” è ricalcato sulla Federal Reserve. Perfino sul trattato di libero scambio Ttip – che Obama ha continuato a difendere anche nell’intervista a Repubblica – l’Italia di Renzi e Carlo Calenda è stata l’ultima a mollare, Germania e Francia avevano già dichiarato defunto quell’accordo. Mancano tra i nostri due paesi contenziosi bilaterali gravi come nei casi Volkswagen e Deutsche Bank che avvelenano il rapporto Germania- Usa.
Verso la Russia, i mal di pancia della Confindustria per le sanzioni economiche non sono diversi dalle lamentele degli ambienti economici tedeschi, francesi e inglesi. Casa Bianca e Dipartimento di Stato riconoscono che quelle sanzioni pesano molto più sull’Europa che sugli Stati Uniti (l’interscambio Usa-Russia ha proporzioni minuscole). Anche qui però si è diradato quel clima di ambiguità e sospetti che regnava a Washington all’epoca di Berlusconi: vedi le rivelazioni di WikiLeaks, i timori dell’ambasciata Usa in Italia fin dai tempi di George W. Bush sul triangolo Berlusconi-Eni-Putin.
L’ambasciatore americano a Roma si pronunciò a favore del Sì, provocando proteste dal fronte opposto. Della riforma costituzionale Obama sa poco, e quel poco è fatto d’informazioni “filtrate”: prevalentemente sono spiegazioni che gli ha fornito Renzi. Al G20 di Hangzhou in Cina mi è capitato di subire un piccolo interrogatorio sul referendum italiano da parte di uno dei più influenti consiglieri di Obama, che un mese fa sembrava ancora a caccia di notizie sul tema.
Gli ambienti di Wall Street si erano già formati un’opinione, trapelata in diversi articoli usciti a Ferragosto su Wall Street Journal, Reuters, New York Times e Financial Times: i mercati preferiscono la stabilità. Il presidente americano si è fatto l’idea che la vittoria del Sì al referendum renderebbe l’Italia un po’ più governabile mentre una vittoria del No potrebbe preludere a un nuovo periodo di instabilità.
Giusta o sbagliata, la conclusione è prevedibile: Obama non ha voglia di perdere uno dei pochi alleati sicuri. Se poi l’appoggio di Obama sia utile o meno, è un altro discorso. Nel caso di Brexit Obama fece una campagna ben più esplicita e vistosa contro l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, ma la maggioranza degli elettori britannici non si fecero influenzare.