Aldo Grasso per il “Corriere della Sera”
Il più simpatico, il più sincero ancora una volta è stato Gianni Morandi: nei confronti di Franco Battiato provava una sorta di soggezione culturale che non gli impediva, tuttavia, di apprezzarne l'umanità e la simpatia.
Gli omaggi al «caro estinto» sono sempre un esercizio arduo, un difficile equilibrio tra l'ammirazione e l'esibizione del proprio ego, tra l'interpretazione (nel significato molteplice della parola) e l'immancabile «io lo conoscevo bene» («Caro Battiato», Rai3). Pif ha provato ad applicare il modulo del «caro Marziano» al concerto dedicato a Battiato tenutosi all'Arena di Verona nel settembre scorso.
In tutta onestà, non è stata un'idea felicissima, forse bastavano le interviste fatte nel backstage. E comunque il difetto di questi omaggi (era già successo a Genova con la commemorazione di Fabrizio De André) è che raramente le esibizioni reggono il confronto con l'originale: «Giù dalla torre/butterei tutti quanti gli artisti/perché le trombe del giudizio suoneranno/per tutti quelli che credono in quello che fanno».
Ecco, a Verona, tutti credevano in quello che facevano, fin troppo. Non c'è un solo Battiato, ce ne sono molti: c'è lo sperimentatore (negli anni in cui per sopravvivere accompagnava Giorgio Gaber con la chitarra); c'è il sublime inventore del «kitsch erudito» (non è camp, ma un genere ancora tutto da esplorare, specie nel mondo letterario); c'è il Battiato sgalambrico (Manlio Sgalambro, filosofo insigne di superba asprezza, autore del saggio «Dell'indifferenza in materia di società», ha scoperto in tarda età la gioia di apparire).
Questione di gusti, ma il Battiato più interessante resta quello che mescolava l'alto e il basso, il misticismo e l'impegno politico, il catalogo Adelphi e il pop internazionale, la curiosità e l'ironia. Poi temo si sia preso un po' troppo sul serio, credendo in quello che faceva, abbandonando le magnifiche e sante scorrettezze.
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