Carlo Bertini per “la Stampa”
Punto primo: a meno che non sia solo tattica per alzare la posta nella trattativa sulle poltrone (questa la speranza dei dem) dai primi segnali si capisce che a Carlo Calenda e a Giuseppe Conte non interessa granché vincere le regionali nel Lazio, così come in Lombardia. Mentre al Pd interessa eccome ed è pronto a lanciare una rappresaglia: «Se loro rompono l'alleanza per farci perdere le prossime regionali, li faremo uscire da tutte le giunte sui territori, vista la grande generosità con cui li abbiamo trattati», dice uno dei più alti in grado. Una minaccia che suona possibile, visto che in alcune realtà come Cosenza, «i grillini hanno un assessore senza avere consiglieri in grado di far cadere la giunta». Una misura che farebbe scoppiare dentro i 5stelle una serie di incendi sui territori difficili da domare per Conte.
Certo i dem vogliono costruire le alleanze, ma se questo atteggiamento di Conte e Calenda si trascina fino alle estreme conseguenze, il Pd con le spalle al muro potrebbe reagire facendo uscire da tutte le giunte i 5stelle e anche Azione, nelle realtà come il Lazio dove governa insieme a Pd e M5s. Ma nel Pd c'è chi, come Francesco Boccia, già si straccia le vesti, perché «o si va avanti con M5s e terzo polo, oppure si perde»: per questo il responsabile enti locali è convinto che alla fine con Conte si riuscirà a trovare un accordo, specie se nel congresso a tesi del Pd prevarrà l'ala «giallorossa».
Peccato che i buoni propositi vengano stroncati dall'alto, perché il leader di Azione dice no ai 5stelle («non saremo in coalizione con loro») e Giuseppe Conte fa sapere che non è aria di accordi, perché «la questione dell'inceneritore a Roma - dice ai suoi - ha fatto cadere un governo, ovvio che sia dirimente per il Lazio». E se Conte «non si fida di questa leadership del Pd», sarà però proprio Enrico Letta e il suo gruppo dirigente a gestire la partita delle regionali. Visto che i gazebo per decidere il nuovo segretario si apriranno alla fine di un lungo percorso congressuale, quando le urne per la scelta del presidente del Lazio saranno già chiuse.
Quindi a meno di sorprese, il rebus regionali potrebbe risolversi come quello delle politiche: campo largo dei progressisti in frantumi e vittoria della destra unita. E tutto ciò malgrado le ragioni della convenienza: vincendo in coalizione, Calenda avrebbe 3 o 4 assessori capaci di incidere sulla vita di 5 milioni di cittadini, dicono i dem locali, da solo avrebbe un consigliere e basta. Idem per i 5stelle, che potrebbero spuntare richieste di ogni sorta.
Senza contare i rapporti personali: raccontano che dei tre candidati in pectore del Pd per la carica di governatore - Alessio D'Amato, Enrico Gasbarra e il vicegovernatore Daniele Leodori - quest' ultimo pare abbia ottimi rapporti con la grillina più influente, Daniela Lombardi, favorevole all'alleanza: «Saranno le Regioni a dire la propria - sostiene lei - è giusto che la decisione arrivi dal basso verso l'alto e non viceversa»; Gasbarra e Conte pare si conoscano bene e l'assessore alla Sanità D'Amato è molto apprezzato da Calenda che lo ha elogiato pubblicamente a più riprese.
Punto secondo, la partita delle regionali è influenzata dalle mire nazionali di Conte e dei leader del Terzo Polo, tutti vogliosi di fare incetta dei voti dem: se l'intenzione di Renzi è di spingere il Pd alle regionali contro un muro per dargli il colpo di grazia e annetterlo, l'ala sinistra dei dem prova a stoppare l'opa ostile. Goffredo Bettini, dopo aver sentito le parole di Renzi - «ci saranno due opposizioni, una riformista con me e Calenda e una populista con Conte e quelli del Pd che amano Conte» - capisce l'antifona.
Ovvero che è in corso una manovra di Renzi per far capire ai suoi ex sodali del Pd che non gli conviene restare in un partito in via di estinzione e che fanno meglio a passare subito col terzo polo. Bettini dunque si attacca al telefono con vari interlocutori e fa arrivare al leader di Azione il messaggio che lui non proporrà affatto l'uscita dal Pd e la nascita di una nuova formazione politica. Quindi non ci sarà una nuova «cosa rossa», di cui si attribuisce la paternità allo stesso Bettini in combutta con Conte: l'ideologo dem dirà la sua nel partito che ha fondato, puntando a spostarne l'asse a sinistra. Ma nel congresso, non fuori.