Francesco Bei per “la Repubblica”
«Siamo garantisti, non facciamo dimettere nessuno per un avviso di garanzia». Alle prese con il caso del sottosegretario Giuseppe Castiglione, Ncd, indagato in un’inchiesta collegata a Mafia Capitale, Matteo Renzi con i suoi si mostra tranquillo a dispetto della bufera che ha investito (anche) il Pd romano e ha macchiato un esponente del suo governo. La linea garantista del premier, spiegano a palazzo Chigi, è la stessa che venne espressa nell’intervista del 20 marzo scorso a Repubblica al tempo delle dimissioni di Maurizio Lupi da ministro. Dimissioni «politiche», appunto, non causate da un avviso di garanzia.
il senatore giuseppe castiglione
Del resto, notano maligni dentro l’Ncd, sarebbe difficile per il capo del governo chiedere un passo indietro a Castiglione con altri quattro sottosegretari del Pd indagati in varie inchieste e ancora al loro posto. Senza contare che giusto ieri il presidente del Consiglio ha ricevuto per un’ora a palazzo Chigi Vincenzo De Luca, candidato ugualmente nonostante la condanna in primo grado. In ogni caso tra Renzi e Alfano in queste ore non sembra esserci tensione, benché i due non si siano ancora parlati direttamente. C’è stato solo uno scambio di sms tra ministro e premier, ma senza che questo lasci presagire cambi di rotta o guerre interne alla maggioranza.
L’altro grande motivo di imbarazzo e tensione è lo scandalo che ha colpito il Pd romano, arrivando a lambire la Pisana e il principale collaboratore di Nicola Zingaretti, considerato uno dei possibili leader futuri della minoranza interna. Per evitare uno scorrimento di sangue ancora peggiore, al Nazareno è stato stretto un patto di ferro tra maggioranza e minoranza. Una blindatura di Ignazio Marino, proposta da Guerini e Orfini e sottoscritta da Zingaretti anche a nome della minoranza.
Tanto che ieri, a parte un’isolata richiesta di Cuperlo di far dimettere Castiglione, sulla vicenda Mafia Capitale non si notava il solito circo di dichiarazioni e controdichiarazioni tra renziani e bersaniani. Il patto sembra reggere. «C’è una grande compattezza interna — conferma Matteo Orfini — perché il momento è difficile: siamo uniti per difendere la città dalla malavita ». Oltre alle parole i cittadini si attendono dal partito di maggioranza fatti concreti e qualcosa è in gestazione. Il piano di “ripulitura” investirà sia il Campidoglio, apparso fin troppo permeabile alle influenze criminali, sia il partito.
maria elena boschi e matteo orfini
La prossima settimana, ad esempio, saranno dimezzate le commissioni consiliari della capitale — passeranno da 24 a 12 — e oltre al taglio ci sarà anche una rotazione dei presidenti. Proprio per evitare situazioni troppo incancrenite e commistioni pericolose. Quanto al Pd, a metà giugno sarà riaperto il tesseramento ma con regole nuove.
In modo tale da evitare iscrizioni “last minute”, pacchetti di tessere, circoli fantasma, iscritti inesistenti (una tessera su cinque a Roma sarebbe falsa). La prossima settimana il Pd aprirà le porte e manderà in giro per la città tutti i suoi militanti e dirigenti. Un grande volantinaggio per far conoscere ai romani le cose fatte per evitare il malaffare — dal commissariamento di Ostia, prima che arrivassero i pm, alla centrale unica degli acquisti istituita in Regione — e per lanciare la festa de l’Unità.
Che si aprirà proprio con la presentazione del rapporto curato da Fabrizio Barca sulla “malattia” del partito romano e sulla possibile cura. «Noi — promette Orfini — siamo pronti a presentare alla città un Pd ripulito».
C’è poi il fronte nazionale, quello più difficile. La direzione di lunedì rischia di trasformarsi nell’ennesima resa dei conti tra Renzi e la minoranza, soprattutto se quest’ultima affonderà il coltello sui voti persi rispetto alle passate Europee e alle politiche. Ma l’aria che tira in queste ore, anche sulla spinta dei ballottaggi, è quella di trovare una qualche composizione dei dissidi interni.
Miguel Gotor Flavio Zanonato Davide Zoggia
Da una parte e dall’altra non mancano i segnali di fumo. Intervistato da Ascanews, ieri il bersaniano di ferro Davide Zoggia è uscito allo scoperto proponendo un patto al premier: «Modifichiamo la traiettoria di alcuni provvedimenti: la scuola, la riforma costituzionale, assumiamo la nostra proposta del reddito minimo ». Se Renzi accetterà questo impianto, aggiunge Zoggia, la minoranza potrebbe valutare anche l’ingresso negli organismi dirigenti, a partire dalla segreteria: «Non è l’obiettivo principale nostro, ma se si creano le condizioni, se ci viene richiesto non ci sottraiamo».
In un corridoio di palazzo Madama il senatore Vannino Chiti, parlando con Ugo Sposetti, elencava tutti i punti della riforma costituzionale su cui il governo dovrebbe riaprire una discussione. «Sicuramente se dà seguito alla promessa di rivedere il Senato dei nominati è un’apertura importante. Ma non basta. Non è possibile, ad esempio, che il parlamento in seduta comune elegga i membri del Csm e i giudici della Corte. Perché con una Camera dominata da un unico partito, per via dell’Italicum, si potrebbe arrivare all’assurdo che il partito di maggioranza si prende tutto». Se la rotta stabilita è quella dell’intesa interna, la strada per arrivarci è ancora lunga.