Francesco Verderami per il “Corriere della Sera”
Si inabisserà di nuovo, perché non riesce a stare esposto. E a palazzo Chigi farà ciò che ha sempre fatto: l' uomo delle nomine. È una predisposizione genetica quella di Giorgetti, che già all' epoca di Bossi rappresentava la Lega in un anonimo ufficietto nei pressi della Camera, dove insieme al forzista Brancher, al centrista Cesa e al finiano Matteoli, redigeva la mappa del potere da inviare a Berlusconi. Quello era il centrodestra.
Ora sta nel «governo del cambiamento» insieme ai grillini. Ma avrà lo stesso approccio, sebbene la funzione sia diversa. L'incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio gli consente di rimanere nella sua dimensione politica che si combina con il suo benessere psicologico.
Raccontano che il ministro dell' Economia non lo volesse fare, e che fosse sincero quando lo diceva. Certo, sapeva che Salvini non gliel'avrebbe fatto fare ma non è questo il punto.
Nel 2001 infatti mostrò la sua propensione a stare un passo indietro quando, nominato sottosegretario proprio al dicastero di via XX Settembre, resistette lì pochi giorni, giusto il tempo di presentare le dimissioni: «Preferisco la presidenza della commissione Bilancio alla Camera». E venne accontentato.
Non ha lo spirito del capo ma ci sarà un motivo se nel Carroccio è stato il braccio destro di ogni leader. Forse è grazie al suo carattere se è sopravvissuto, o forse si è ritagliato il suo carattere per sopravvivere. Ma non c'è dubbio che se tutti l'hanno voluto al proprio fianco è per la capacità - che gli viene riconosciuta - di fare il sistematore ideologico e insieme il consigliere nei momenti decisivi.
matteo salvini, giancarlo giorgetti, gian marco centinaio
Mercoledì sera, per esempio, la sera che ha cambiato il corso della legislatura, è entrato nella stanza dove c'era lo stato maggiore leghista ed è stato netto. «Ho parlato con il demonio», ha esordito sorridendo. Poi si è fatto serio: «Il governo va fatto, troviamo una soluzione su Savona e chiudiamo». «Chi è il demonio?», gli è stato chiesto. «È un italiano che non sta in Italia. È un mio amico».
Di amici Giorgetti ne ha tantissimi, una rete di relazioni che coltiva con riservatezza.
Maroni, negli anni in cui era al Viminale, si rivolse a lui per conoscere Draghi, che all'epoca stava a Bankitalia. Alla fine del colloquio il titolare dell' Interno volle capire: «Ma gli dai del tu?». E l'altro: «Certo, è un mio amico».
Insieme ad altre centinaia di amici, che stanno ai vertici dei maggiori istituti di credito, delle potenti fondazioni bancarie, delle maggiori aziende pubbliche e private. Eppure alla Camera è sempre lì che parla del calcio inglese e del Southampton, appena può. Lo fa dal 1996 quando, seduto sui divanetti di Montecitorio, il socialista Villetti lo indicò ai cronisti: «Prendete nota. È un giovane leghista, ma lo sto frequentando in commissione Bilancio ed è uno competente».
Gli ormai ex alleati forzisti dicono abbia perso la burbera affabilità che lo contraddistingueva. In questi mesi a loro avviso è cambiato, e portano a sostegno della tesi i toni usati con Berlusconi durante una telefonata della scorsa settimana, siccome «Brunetta che va in tv e ci tratta da traditori ha proprio rotto».
giorgetti con i saggi di Napolitano
Con il Cavaliere però le relazioni non sono destinate a interrompersi, specie se da sottosegretario alla presidenza del Consiglio gestirà la «golden power», che consentirà al governo di avere voce in capitolo su alcuni nodi strategici, come il destino delle telecomunicazioni.
Il controllo della Cassa depositi e prestiti sarebbe il suo obiettivo, così scommettono amici e avversari. Intanto ha in animo di prendersi la delega allo Sport, per la passione che nutre verso il calcio dilettantistico e anche per togliersi qualche sassolino dalle scarpe con l'attuale presidente del Coni, Malagò.
È chiaro, il ruolo che si è ritagliato non è marginale. E la sua esperienza verrà utile ai colleghi di partito e ai grillini, che si sono appena seduti in Consiglio dei ministri e non sanno quanto possa essere oscura la selva dei dicasteri. Fu così che nel 1994 la mente più raffinata della destra, Tatarella, appena insediatosi alle Poste scoprì come sarebbe andata al primo governo di Berlusconi: «È la terza volta in sette giorni che il direttore generale mi rimanda indietro questa nota. Non dureremo sei mesi». Ebbe ragione.
salvini al quirinale con giorgetti
Giorgetti conosce la pianta organica dei ministeri come l'orto di casa, dove coltiva frutti di bosco. E spera di non veder crescere l'erbaccia, che è la sua ossessione. Perciò si sta per inabissare, per fare «il regista arretrato alla Pirlo», per «far durare cinque anni il governo». Quanto per davvero, si vedrà. Alla squadra leghista, prima del giuramento, ha consigliato di mettere sulle scrivanie la foto di Renzi: «Abbiamo un'opportunità, ma fate attenzione. Ricordatevi che quattro anni fa il segretario del Pd aveva il 40%».