Alberto Gentili per "il Messaggero"
E' il no al sistema elettorale proporzionale e l'avversione per la nascita di un ipotetico Grande Centro il filo rosso che unisce Enrico Letta e Giorgia Meloni. «Un ritorno al proporzionale sarebbe vergognoso», ha detto la leader di Fratelli d'Italia alla presentazione del nuovo libro di Bruno Vespa Perché Mussolini rovinò l'Italia.
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E il segretario del Pd che le stava seduto accanto, ha offerto sponda: «La legge elettorale non cambierà, resterà il Rosatellum, perché il Parlamento non è in grado di trovare un'intesa su una nuova legge. Posso scommetterci». Dietro questa intesa della strana coppia c'è una convergenza di interessi. Letta, al solo pensiero della nascita di un centro moderato, ha attacchi d'orticaria.
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Non a caso continua a lavorare alla costruzione del campo largo, dove unire sotto la stessa bandiera dei progressisti e un «premier che indicheremo prima delle elezioni», i 5Stelle, Leu, Carlo Calenda e quegli elettori che votano Matteo Renzi.
Del senatore di Rignano il segretario del Pd farà volentieri a meno, come dimostrano le parole usate al Tempio di Adriano: «Renzi nel campo largo? Io lavoro per una coalizione costruita dal dibattito con i cittadini, non con i gruppi dirigenti».
LE MOSSE DI GIORGIA
Giorgia Meloni dice no al proporzionale perché condivide, appunto, l'avversione verso un centro moderato che potrebbe spingerla all'isolamento a destra. Così come un tempo accadeva al Msi. E con accanto Letta l'ha detto candidamente: «Nelle alleanze Fratelli d'Italia non ha un piano B, noi abbiamo il limite della monogamia e quindi, non avendo un piano B, l'unica possibilità di andare al governo è insieme agli alleati del centrodestra».
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Ma allo stesso tempo, ancora una volta, la leader di FdI prende le distanze da Matteo Salvini, dicendo no all'invito di Marine Le Pen a entrare al Parlamento europeo in un gruppo che unisca tutti i sovranisti e disertando, con ogni probabilità, il vertice del 3 dicembre a Varsavia con Jaroslaw Kaczynski e il segretario leghista. Il passo successivo della Meloni è stato dare una bella botta alle speranze quirinalizie di Silvio Berlusconi: «La sua elezione non una cosa facilissima, basta guardare i numeri.
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Dopo di che, ho visto che Berlusconi ha risposto per primo all'appello di Letta a trattare insieme del prossimo presidente della Repubblica. E dato che a mio avviso il Pd il Cavaliere non lo vota, ritengo che questo significhi che Berlusconi abbia deciso di fare un passo indietro e non sia più interessato a questa partita».
LA STRATEGIA DEL CAVALIERE
E' vero il contrario. Il Cavaliere punta, eccome al Quirinale, tant' è che è corso a precisare che al tavolo proposto da Letta si deve parlare «solo di legge di bilancio». E ci punta non solo per prestigio personale, ma per riportare Forza Italia «oltre al 20%», come ha confidato nell'ultima riunione ad Arcore.
E domenica scorsa, in un messaggio a un'iniziativa di Gianfranco Micciché che in Sicilia ha stretto un patto con Italia Viva di Renzi, ha delineato la strategia verso la costruzione del Grande Centro: «Dobbiamo occupare il centro della politica, perché il Paese ha bisogno di essere governata da un centro forte che è Forza Italia, alleato a una destra democratica».
Alleato finché resta l'attuale legge elettorale simil-maggioritaria, tutto diverso sarebbe se si tornasse al proporzionale. In più, il Cavaliere coltiva il sogno che a guidare lo schieramento centrista dopo le prossime elezioni possa essere proprio Mario Draghi: «Speriamo che continui a governare fino al 2023 e che dopo possa svolgere una funzione importante...». Renato Brunetta, alfiere dell'ala governista di FI si spinge ancora più avanti: «Draghi deve rimanere a palazzo Chigi fino al 2028, abbiamo bisogno di lui per cambiare il Paese».
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