Estratto dell'articolo di Michelangelo Cocco per “Domani”
Volodymyr Zelensky non è solo. C’è un altro leader che, /proprio come il presidente ucraino, deve fronteggiare un ex impero molto più potente del suo paese, e a cui il ritorno di Donald Trump sta facendo tremare le vene e i polsi.
È William Lai, a cui il tycoon si appresta a presentare un conto salatissimo che rischia di essere insostenibile per il capo del non-stato taiwanese, finito tra due fuochi: da un lato i diktat di The Donald, dall’altro la pressione dei caccia e delle navi con la stella rossa, i cui war game segnalano che l’Esercito popolare di liberazione (Epl) si sta preparando a “riunificare” quello che la Repubblica popolare cinese (Rpc) considera un suo territorio.
WILLIAM LAI GIURA COME PRESIDENTE DI TAIWAN
Taipei dipende dalla protezione di Washington, una subordinazione aumentata con i tre governi consecutivi del Partito progressista democratico (Dpp) di Lai, che non hanno riconosciuto il “Consenso del 1992” (sottoscritto da rappresentanti del partito comunista e del partito nazionalista all’opposizione a Taiwan) e con i quali per questo motivo da un decennio la Rpc ha interrotto il dialogo.
Al contrario, il Dpp ha trovato una solida sponda al Congresso in Marco Rubio, l’ultrà anti Cina in predicato di diventare segretario di Stato. Il senatore repubblicano […] ha introdotto in parlamento il Taiwan Relations Reinforcement Act e il Taiwan Peace Through Strength Act, due leggi che mirano a rafforzare le relazioni politiche tra Washington e Taipei e ad aumentare le commesse di armamenti made in Usa per l’isola, che durante il Trump I hanno registrato il record di 18 miliardi di dollari di forniture approvate.
[…] Tuttavia per Trump, più che difendere l’isola, conta ridurre i deficit commerciali Usa, anche con Taiwan, per cui gli Stati Uniti, nei primi tre trimestri del 2024 (avendo superato la Rpc), sono diventati per la prima volta il mercato d’esportazione numero uno. Perciò The Donald è intenzionato a irrompere nell’agenda di governo di Taipei, scompaginandola, imponendo i suoi desiderata su difesa e microchip.
La “tassa per la protezione” da far pagare a Taiwan invocata da Trump non è una sparata. Anche se dall’isola non si potrà ottenere un “tributo” pari al 10 per cento del prodotto interno lordo come preteso in campagna elettorale, a Washington sono convinti che la nuova amministrazione non si accontenterà di meno del 3-5 per cento […]. […]
[…] Raytheon, Northrop Grumman, Lockheed Martin e Boeing sono stati tra i principali finanziatori della campagna che ha riportato Trump alla Casa Bianca (con donazioni ufficiali di 43.383, 52.032, 69.552 e 82.761 dollari rispettivamente) e ora battono cassa, perché buona parte degli ordinativi del Trump I per Taiwan sono rimasti sulla carta.
E poco importa che nelle ultime settimane una ispezione federale statunitense abbia accertato che Raytheon ha gonfiato i prezzi di missili e radar Patriot venduti a Taiwan di centinaia di milioni di dollari. In linea con la politica dell’amministrazione Biden, Trump sarebbe orientato a favorire la consegna – piuttosto che di caccia e carri armati – di strumenti per la guerra asimmetrica, manutenzione e addestramento.
Ultimamente il ministro della Difesa, Chiu Kuo-cheng, ha confermato la presenza «permanente» di berretti verdi statunitensi (secondo i media locali negli isolotti di Kinmen e Penghu) con il compito di preparare i militari taiwanesi a una risposta alla ucraina a un’eventuale azione di forza dell’Epl.
LA CATENA DI VALORE DEI SEMICONDUTTORI
[…] Oltre che sull’entità della “tassa per la protezione”, il braccio di ferro tra Trump e Taiwan sarà sui microprocessori, con il presidente eletto che ha lanciato un messaggio chiaro, accusando l’isola di «essersi presa il 100 per cento del business dei chip dell’America».
Negli ultimi giorni il ministro dell’Economia, J.W. Kuo, è intervenuto per assicurare che la taiwanese Tsmc non potrà produrre all’estero i microchip più avanzati (a 2 nanometri), perché ciò è vietato dalle norme sulla protezione della tecnologia made in Taiwan. Kuo ha rilasciato queste dichiarazioni in risposta alle preoccupazioni secondo cui Tsmc potrebbe essere costretta a sfornarli dai suoi stabilimenti in Arizona per effetto del ritorno di Trump.
Lo spauracchio di un conflitto con la Rpc ha già convinto la compagnia leader globale dei microchip ad accelerare la localizzazione all’estero: in Arizona (con un investimento da 12 miliardi di dollari), in Giappone (20 miliardi) e a Dresda, in Germania (11 miliardi).
Un esodo massiccio della produzione dei cervelli dell’industria e della difesa moderna – che a Taiwan vengono fabbricati a costi imbattibili e che sono facilmente esportabili – giustificabile solo se sarà mantenuta alta la tensione tra le due sponde dello Stretto.
«Gli Stati Uniti hanno ordinato alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Co (Tsmc) di interrompere le spedizioni ai clienti cinesi di chip avanzati, spesso utilizzati in applicazioni di intelligenza artificiale», ha riferito qualche giorno fa CommonWealth Magazine.
Il dipartimento del Commercio ha inviato una lettera alla Tsmc imponendo restrizioni all’esportazione su alcuni chip sofisticati destinati alla Cina che alimentano acceleratori di intelligenza artificiale e unità di elaborazione grafica. Secondo l’autorevole giornale taiwanese, «l’inedito ordine statunitense arriva solo poche settimane dopo che la Tsmc ha notificato all’amministrazione uscente che uno dei suoi chip era finito esattamente dove il governo degli Stati Uniti non lo voleva: in un processore prodotto da Huawei». […]
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