Nino Bertoloni Meli per il Messaggero
Cinque fiducie approvate in mezza giornata. Mai riforma elettorale viaggiò più spedita, ma il prezzo è la certificazione di una nuova maggioranza in cui il gruppo di Ala diventa decisivo. Il pacchetto di voti più sostanzioso si è avuto nel secondo voto di fiducia con 151 sì. Il risultato più basso, invece, nel quinto e ultimo voto: solo 145. Oggi il voto finale.
Cinque fiducie a suon di contestazioni, polemiche, entrate e uscite dall'aula del Senato, si è pure sfiorata la rissa, quando i senatori cinquestelle hanno pensato bene di invadere la sala della conferenza dei capigruppo, fermati davanti agli ascensori da un gruppo di robusti commessi di palazzo Madama. Grillini protagonisti anche di contestazioni in aula, con Michele Giarrusso da Catania che vota e fa il gesto dell'ombrello, con Vito Crimi che mentre parla viene più volte interrotto dal collega di gruppo Alberto Airola che intende dargli manforte, lui prima sta al gioco ma alla fine si spazientisce e gli toglie il microfono, entrambi poi vengono ripresi da Pietro Grasso, il presidente, «non si era mai visto un intervento a due voci».
In questo siparietto tutto siciliano, sempre Crimi che è di Palermo invita Grasso di Licata a «dimettersi» per non essere «complice», come dice, di questa «legge vergogna», con il presidente del Senato che replica piccato: «E' più duro resistere che fare una fuga vigliacca».
SEDUTO
A mezzogiorno e 12 minuti l'aula si fa ordinata, nessuno fiata, nessuno contesta. Parla Giorgio Napolitano. Seduto, una lampada accesa vicino alle sette cartelle che legge scandendo le parole, ogni tanto aiutato da una lente, vicino il fedele Sposetti, quindi la Fattorini e poi ancora Casini, al banco del governo la Finocchiaro e Pizzetti, il presidente emerito pronuncia il suo discorso dove non risparmia critiche a Renzi esaltando al contempo i meriti di Gentiloni, «una persona che stimo per come sta guidando il Paese», ma «sottoposto a forti pressioni».
Napolitano denuncia la politica attuale segnata da «personalismi dilaganti come mai», ricorda il suo impegno per fare le riforme, ma si chiede retoricamente se il ricorso alla plurifiducia fosse l'unica strada, «anche per contrastare la campagna antiparlamentaristica». Il presidente emerito conclude annunciando il suo sì alla fiducia, mentre sul voto finale non si sa se ci sarà. Termina e si forma la fila per stringergli la mano: Monti, Orlando, Zanda tra i primi.
Sotto traccia, ma non troppo, si è combattuta una vera e propria battaglia sul numero legale, vinta alla fine dal capogruppo dem, Luigi Zanda. Perché battaglia? Perché la composizione della maggioranza che sosteneva la riforma, ampia e comprendente Pd, FI, Lega e centristi, era diversa da quella che sostiene il governo, per cui al momento del voto Fi e Lega hanno abbandonato i lavori contribuendo così ad abbassare il quorum, ma aprendo la strada a possibili blitz sul numero legale. Una sola volta su cinque le opposizioni del no sono riuscite ad andarci vicino, tanto che alcuni senatori forzisti e leghisti sono rientrati in aula per garantire il numero.
Il Rosatellum bis è così passato oscillando sempre intorno ai 150 voti, mentre i contrari non hanno superato i 70 voti, con M5S, Mdp e Si fuori a contestare o dentro a non votare. Dopo l'uscita ufficiale dei bersaniani dalla maggioranza, i voti di Verdini e dei verdiniani (tredici circa) sono diventati decisivi, questa volta per il numero legale, in futuro anche per riuscire a far passare altri provvedimenti. «Con l'uscita di Mdp, la maggioranza non c'è più, sia nelle commissioni che in aula», riconoscono dalle parti del Pd, d'ora in poi sono a rischio la Finanziaria e ogni altro provvedimento se non prima contrattato.
Una situazione che ha fatto dire a Loredana De Petris che «adesso il governo deve prendere atto che la maggioranza è cambiata e operare di conseguenza», in sostanza, secondo la capogruppo di SI, Gentiloni dovrebbe salire al Quirinale, conferire con Sergio Mattarella e vedere se e come procedere.