Antonio Polito per il “Corriere della Sera”
Il sogno della «remuntada» genera mostri. Ma mobilita anche gli elettori pigri, quelli che davano il risultato per scontato e hanno bisogno di un po' di pepe nel finale di campagna per convincersi a votare. Ecco spiegata l'ostentazione di speranza a sinistra e una certa radicalizzazione a destra. In realtà le rimonte sono più facili nel calcio, dove c'è un pallone che rotola; alle elezioni per sovvertire un pronostico bisogna mettere milioni di schede l'una sopra l'altra.
Ma sembra ormai chiaro che chi rincorre considererebbe un successo anche solo «azzoppare» il centrodestra: costringerlo cioè a una vittoria mutilata, non trionfale. Il ragionamento è questo: se Lega e Forza Italia ottenessero un po' meno del previsto, e l'ascesa di Meloni fosse contenuta sotto il 25%, allora la coalizione vincente potrebbe raggiungere un totale più vicino al 40% che al 45% dei consensi. Non una valanga, insomma. Il che comporterebbe due conseguenze.
La prima di legittimazione: sarebbe molto meno della metà degli elettori. La seconda più seria: la maggioranza in Parlamento ci sarebbe di sicuro grazie ai collegi uninominali, ma potrebbe fermarsi sotto quella soglia di sicurezza necessaria a evitare sorprese in corso di legislatura. Facciamo un esempio: il nuovo Senato con 200 membri eletti. Per governare senza rischi e affanni, e per stipulare un'assicurazione contro cambi di casacca, scissioni, franchi tiratori e imprevisti vari, vincere 110 a 90 può non bastare: se si spostano in dieci, sei nei guai.
Tenete conto che i tre senatori a vita (su sei) che partecipano attivamente ai lavori dell'assemblea non sono ascrivibili al centrodestra; e che, a giudicare dal passato, almeno tre dei quattro senatori che vengono dalle circoscrizioni estere potrebbero essere eletti nelle file dell'opposizione.
Poi ci sono i due membri di Südtiroler Volkspartei e di Union Valdotaine, tradizionalmente non schierati con il centrodestra. Insomma, se vuoi stare sicuro devi vincere 120 a 80, o almeno 115 a 85. Forse questo spiega il confuso affannarsi degli ultimi giorni con «radici» e «ideologie». Con Letta che corre a Berlino per farsi dire dai tedeschi della Spd che è meglio lui dei «post-fascisti».
Con Salvini che «divorzia» da Putin su un giornale americano, ma contemporaneamente si vanta del messaggino di sostegno di Marine Le Pen. E con Giorgia Meloni che aderisce alla frase di Fini sul «fascismo male assoluto», e poi fa gli auguri all'estrema destra spagnola di Vox.