Monica Perosino per “La Stampa”
Seppur nascosta dalla nordica compostezza, la tensione che si respira a Stoccolma è tangibile. Si vede dalle occhiaie di chi ha passato le ultime ore incollato al sito del Valmyndigheten, l'autorità elettorale, o davanti agli schermi della Sveriges Television, a sussultare, seggio dopo seggio, nel vedere come la Svezia cambiava colore e come la divisione di un Paese si faceva voragine.
L'epilogo di queste drammatiche elezioni sono state le dimissioni della premier e leader dei Socialdemocratici Magdalena Andersson, piegata dai risultati elettorali che hanno consegnato la Svezia alle destre. Ci sono voluti due giorni per terminare le operazioni di voto che hanno alla fine sancito una vittoria fragilissima, ma pur sempre una vittoria: 176 seggi alla coalizione di destra contro i 173 della coalizione rosso-verde.
Ormai è chiaro che la patria dello stato sociale e della politica delle porte aperte ha preso una nuova strada, tracciata dall'estrema destra di Jimmie Åkesson, leader dei Democratici svedesi, nazionalisti anti-migranti e, la lista si allunga, con matrici neonaziste. Fino a oggi esclusi dai tavoli della politica per le loro idee troppo estreme, sono diventati il secondo partito del Paese.
Il cordone sanitario che li teneva fuori si è infranto quando i conservatori di Ulf Kristerssons hanno deciso che una «collaborazione» poteva essere un'ipotesi. «Questa non è una vittoria, è una vendetta», diceva la base del partito nella notte elettorale, «ora non potranno più escluderci!», esultava Henrik Vinge, vice leader del partito, quando iniziava ad essere chiaro che la Svezia era precipitata in un paradosso, con il primo partito i Socialdemocratici (al 30,5%) e il secondo l'estrema destra anti-migranti di Jimmie Åkesson(20,6).
Dietro questo paradosso, questo futuro che non prevede vie di mezzo, c'è un uomo che ha saputo trasformare un partito nato dalla brace di un gruppo neonazista, il Bevara Sverige Svenskt, in un partito che, anno dopo anno, è riuscito convincere una buona fetta di elettori di non essere più quel manipolo di esaltati fascisti e razzisti che la domenica andava a inneggiare a Hitler e bere birra nelle foreste svedesi.
Evidentemente le foto di una candidata comunale che falcia l'erba indossando una fascia con la svastica, o il messaggio Whatsapp circolato dieci giorni fa dove un dirigente di partito invitava i colleghi una festa a casa sua in onore dell'83° anniversario dell'invasione nazista della Polonia. Anche gli svedesi, a quanto pare, dimenticano in fretta.
In 17 anni, Jimmie Åkesson ha guidato con destrezza i Ds fuori dal girone dei "paria" della politica e li ha resi un peso massimo, il cui sostegno è ora indispensabile se il blocco di destra vorrà governare. Molto probabilmente non entrerà nel governo di Kristerssons, ma sicuramente eserciterà il suo peso elettorale sul futuro di migranti e confini. Åkesson, 43 anni, è cresciuto in una famiglia della classe media dello Skåne, Sud della Svezia.
È lì, nelle piccole città e nelle fattorie della Scania rurale, che ha costruito la sua roccaforte. Dopo aver lasciato l'Università di Lund, ha assunto la guida del partito nel 2005, quando il sostegno degli elettori era intorno all'1%. Oggi la sua è una vittoria che sa di rivalsa. Un trionfo «dal sapore dannatamente buono», lo definisce Jimmie, che ha costretto tutte le forze politiche in campo a seguirlo in una campagna elettorale durissima centrata sulla sicurezza. E che ora proietta il partito anche sulla ribalta europea, dove ha casa nei Conservatori e Riformisti (Ecr) guidati da Giorgia Meloni, una delle prime leader a congratularsi per la vittoria "storica".
«Quando conservatori e popolari costruiscono un'alternativa credibile, la sinistra perde», si è affrettata a commentare la leader di Fratelli d'Italia, auspicando che l'ascesa di Åkesson sia «da modello per il resto d'Europa». Eccolo il "modello" Jimmie, identico a vent' anni fa, solo leggermente appesantito. Capelli inchiodati dal gel, camicie sempre perfettamente stirate, si ispira all'Ungheria di Orban, adora la pizza, le patatine fritte e i libri gialli e, soprattutto, mal tollera i migranti, per lui causa di tutti i mali. Perché se il welfare cade a pezzi, le gang si sparano per strada, e lavoro non ce n'è, la colpa è "loro".
Il suo punto di forza è che questo ragazzone di 43 anni sembra uno svedese medio, «vuole dare l'impressione di essere un tipo comune, uno che nel week-end griglia salsicce con gli amici, parla in modo normale, prende voli charter per andare in vacanza alle Canarie», dice Jonas Hinnfors, docente di Scienze politiche all'Univeristà di Gotheborg. Così, grigliando salsicce, Jimmie sembra far dimenticare le intemperanze suprematiste, le braccia alzate e i Sieg Heil dei suoi "democratici".
Anche se ogni tanto qualcuno scivola ancora. Negli anni ha ripulito il partito, iniziando con l'espellere gli impresentabili (o almeno, quelli che con le svastiche al braccio si facevano beccare in pubblico), e creando un'immagine rassicurante. Invece di una torcia accesa, ha sostituito come simbolo del partito un bucolico fiore blu e giallo.
Ma quello che vuole il ragazzo dello Skåne è chiaro: la Svezia agli Svedesi e un muro - fisico o legislativo - davanti agli immigrati. Oltre alle aspirazioni ungheresi, Åkesson è contro i meccanismi di solidarietà europea (nella sua visione nazionalistica i Recovery and Resilience Plan non dovrebbero esistere) e naviga nell'ambiguità quando si parla di Russia. Anche se è abilissimo a "sentire" l'opinione pubblica, che in Svezia è decisamente pro Ucraina, il 17 febbraio scorso, durante un'intervista in cui gli si chiedeva se preferisse Putin o Biden, ha risposto "Non scelgo".
L'anno prima la domanda era tra Macron e Putin, la risposta la medesima. Ma se altri partiti europei di estrema destra hanno espresso sostegno al presidente russo, Sd si è espresso contro l'invasione dell'Ucraina e sostegno all'ingresso della Svezia nella Nato.
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