Sandro Modeo per www.corriere.it
Nella suggestiva geografia filosofico-tattica dei quarti di Champions, ci sono regioni nitide e altre più sfocate, con scuole e tendenze che sfumano le une nelle altre, tra alcune conferme e altrettante sorprese.
1. Agli estremi del paesaggio
Agli estremi del paesaggio - all’ovest e all’est della mappa - si trovano Juve e City, coi loro tecnici mai così distanti per concezione e visione. In quattro anni, la Juve di Allegri- vedi pagina analitica della Gazzetta del 26 marzo - ha accentuato e insieme affinato la sua identità da calcio all’italiana 3 se non 4.0. Lo mostrano, su tutti, due dati: il progressivo abbassamento del baricentro (52,1 metri-50,8-49,8-49,4) e il progressivo accorciarsi della squadra, pur con andamento oscillante (35,3-33,2-34,8 e ora addirittura 31,8), col secondo dato che - aggregato al primo - indica una «densità bassa» così elevata da spiegare molto dell’impenetrabilità difensiva. Impenetrabilità integrata da un’essenzialità offensiva inedita, dimostrata dalla diminuzione drastica delle giocate in area (solo 18 in media a partita, ma spesso letali) e dal ricorso ai lanci in profondità (superiore alle prime due stagioni, anche se inferiore allo scorso anno, quello del 4-2-3-1 «mourinhano»).
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La Juventus
Questa accentuazione italianista della Juve (lunghi presidi e transizioni offensive brucianti, spesso in 10-12 secondi) è dovuta a esigenze e vincoli precisi: assemblare la difesa post-Bonucci (coi veterani di un anno più anziani) e esaltare giocatori di ripartenza per istinto o adattamento (Dybala e Higuain, Cuadrado e ora Douglas Costa). È un atteggiamento redditizio in campionato, ma (come s’è sempre detto e s’è visto col Tottenham) ad alto rischio in Europa (3 gol subiti in 2 match, e potevano essere di più). In quest’ottica, la gara di Wembley ha emesso una sentenza bifida: ha confermato la spietata efficienza di quell’assetto, ma la sottovalutazione del concorso di colpa degli Spurs dopo l’1-1 (inerzia tattico-agonistica della squadra tutta e inefficienza individuale e collettiva della linea difensiva) ha costruito una mitologia «dei tre minuti» (quella dell’uno-due Higuain-Dybala) che rischia di degenerare in retorica, come fossero i «tre minuti» iniziali del Big Bang studiati da Steven Weinberg.
Perché è vero che una dinamica simile si può ripetere (nel senso che questa Juve la può ripetere, persino andando sotto); ma con squadre meno svagate degli Spurs, anche se magari meno euclidee ed eleganti, è molto più difficile. È invece probabile che la Juve, per andare avanti, dovrà tornare ad associare alla sua parossistica resistenza-resilienza il brand vero di Allegri, cioè la capacità di esercitare transizioni offensive/difensive (di portare 7-8 uomini oltre o dietro la linea della palla) in pochi secondi.
Il Manchester City
All’altro estremo della mappa, il City attuale è il prodotto dell’incessante evoluzione-metamorfosi del calcio del Pep. L’adeguamento del suo gioco agli inferi dinamico-agonistici del calcio-rugby d’Oltremanica non è stato né semplice né indolore: dopo una prima stagione di adattamento e interventi adeguati (in primis portiere e difensori per rimodulare costruzione dal basso, chiusure preventive e recuperi) la sua scacchiera dinamica- già affinata nel passaggio a Monaco - si è tradotta in un sistema che sta a quello del Barcellona come la sintesi all’analisi: un «effetto-Apple» dove un hardware complesso sostenga software e design eleganti e funzionali: o una squadra al grafene, il materiale rivoluzionario - scoperto proprio all’Università di Manchester - che coniuga «la resistenza del diamante e la flessibilità della plastica».
In termini strettamente tecnici, in un possesso-fraseggio dalla cadenza altamente euritmica, dove le sincronia conta più della velocità in sé, con movimenti con e senza palla negli spazi e nei tempi giusti (sia per gli smarcamenti che per il «rilascio» del portatore) a produrre una specie di effetto-staffetta, un «legato» musicale da archi dei Berliner.
Eppure, nonostante il differenziale mostruoso fra reti fatte e segnate (88 e 21, miglior attacco e miglio difesa, =+67) e un’unica sconfitta in Premier (ma proprio conto Klopp, il coach che Pep soffre di più), la squadra non sembra ancora pronta per la Champions: per un verso, la stagione in corso è stata esaltante ma usurante (come esaltante-usurante è il vertice Premier da comparto Nba, il tutto aggravato dai loro folli calendari); per un altro, il City patisce a volte il problema opposto della Juve: un deficit nei dispositivi di inibizione della ripartenza avversaria che può esporlo a improvvisi vuoti d’aria, come quelli mostrati proprio nel match-apnea di Liverpool.
2/1. Nella Terra di Mezzo (ma verso i confini): il Barcellona
Delle sei squadre della vasta Terra di Mezzo, la prima sorpresa è trovarne una (il Barça) non, come ci si aspetterebbe, vicino al City (nonostante il differenziale simile, +61), ma più spostato verso la Juve, con cui condivide il bassissimo numero di reti subite in campionato (Juve 16, Barça 15). Intendiamoci, i blaugrana restano squadra a prevalenza di possesso, capace di fasi di pressing e accerchiamenti furenti: ma lo slittamento rispetto al gioco radicale del Pep - cominciato con Luis Enrique, anche per il vincolo del tridente Messi-Neymar-Suarez - con Valverde è sceso di molti altri gradini, assestandosi su una struttura protettiva in senso tradizionale.
Del resto, i percorsi non mentono: Valverde giocava nell’Espanyol di Javier Clemente, primo avversario Uefa del Milan sacchiano agli esordi (i due tecnici si sarebbero poi ritrovati al Mondiale ’94), cioè di un ottimo coach «difensivo» da cui ha mutuato proprio ferrei automatismi di copertura/ripartenza; gli stessi che ora (con Messi di nuovo al centro del sistema) hanno blindato la squadra nella doppia imbattibilità (Liga e Champions). Fatte le debite differenze di grado e di contesto, lo slittamento da Pep a Valverde può ricordare quello milanista da Sacchi a Capello.
Anche qui, però, le statistiche non devono velare crepe sottostanti, magari agli inizi. E non si allude solo al 2-2 di sabato sera a Siviglia (pari conquistato negli ultimi minuti dallo 0-2), ma soprattutto agli ingannevoli ottavi col Chelsea (1-1 a Londra, 3-0 al Camp Nou): davanti a una squadra in un’ennesima fase di instabilità ambientale (tensione tra Conte e proprietà) e lesionata da prove individuali grottesche (Courtois), il Barça non solo è stato salvato dal caso (i molti pali dei Blues), ma è stato a lungo in soggezione tattico-agonistica.
La Roma
In questa prospettiva, la Roma è avversario in teoria accomodante, in quanto meno impegnativo di (quasi) tutte le altre. In teoria, perché in un anno di inevitabile ricerca-assestamento, il team di Di Francesco ha avuto fasi e identità difformi. Qual è (ammesso che ne esista una sola) la vera Roma: quella delle due partite col Chelsea del girone Champions (6 gol ai Blues) e del recente 2-4 al San Paolo o quella della catena di sconfitte interne all’Olimpico (Atalanta, Samp, Milan)? E a livello di atteggiamento, è quella dal pressing totale dei primi mesi o quella dall’equilibrio più italianista degli ultimi? Il confronto con un Barça non al top può essere l’occasione per un chiarimento di identità.
Il Siviglia
I team più vicini al City nella mappa sono (per certi tratti) i due outsider rimasti in gara: Siviglia e Liverpool. Che la prima sia la maggior sorpresa è incontestabile (così come, a rovescio, lo United è la vera vittima del black hole della mappa insieme al Psg): anche se non del tutto imprevedibile (come sostenevamo a fine 2017 nel lungo ritratto di Montella). Il punto è la schizofrenia della squadra, già marcata prima ma accentuata con l’Aeroplanino, che ha bilanciato un percorso Liga-horror (tra l’altro, tre manite al passivo) con lo smalto nelle Coppe, a partire da quella del Re (finale raggiunta con prove eclatanti come la doppia vittoria contro l’Atletico di Simeone). L’esito spiazzante del doppio confronto con lo United va quindi visto sui due versanti: quello inglese, col team di Mourinho che arriva al ritorno svuotato da tre match notevoli della (di nuovo) esaltate-usurante Premier (vittorie in rimonta con Chelsea e Crystal Palace, grande prova col Liverpool); e quello spagnolo, col Siviglia di Coppa che vede alzarsi motivazioni e tenuta tecnico-agonistica all’alzarsi dell’ostacolo. Anche qui la sorpresa è relativa: Montella ha da sempre un cv migliore contro tecnici di vetta (vedi le vittorie storiche contro Conte e Allegri, cui si può aggiungere il 2-2 di sabato contro Valverde); in più, il suo calcio (un possesso-fraseggio da gioco posizionale già ammirato da Pep ai tempi della Viola) è più adatto a gare secche e contro squadre di difesa/ripartenza. Al Milan, quella prospettiva gli è stata fatale perché perseguita in un ambiente avverso (tanto che è emersa solo a flash, tipo i 43 passaggi del quarto gol col Chievo); e anche col Siviglia s‘è vista fatalmente solo a scorci, seppur decisivi (il primo gol di Ben Yedder a Old Trafford).
Il Liverpool
Quanto al Liverpool, Klopp si sta avvicinando al terzo anno a una squadra heavy metal completa come lo era il suo Dortmund. I tratti di base restano gli stessi: corsa, gegenpressing (riconquista immediata della palla e/o contro-ripartenza) e agonismo estremo; ma a Liverpool il tecnico ha accentuato - già dall’anno sorso - il lavoro sul possesso-fraseggio, o meglio sulla capacità di «avvolgimento» dell’avversario a difesa schierata. Da cui l’avvicinamento alla dimensione-City, acuito dal recente «scambio» di mercato, con l’uscita di Coutinho e l’ingresso di Van Dijk, gigante difensivo utile a suturare lo stesso deficit di cui soffre il City, le ripartenza avversarie (anche se in Premier lo score è diverso, 21 subite dai Citizens, 34 dai Reds). Con una differenza marcata. Il grande Foster Wallace - per descrivere la fusione armonizzata di atletismo da tennis contemporaneo e «tocco» da tennis classico nel suo idolo Federer - parlava di coesistenza tra «Mozart e i Metallica». Premesso che Pep ha cercato e sta cercando di irrobustire il suo telaio di possesso-fraseggio e che i Reds a volte hanno accelerazioni offensive di meravigliosa rapidità-leggerezza (Mané-Firmino-Salah), il confronto sarà per molti versi proprio tra i due versanti Federer scorporati: tra Mozart e i Metallica, tra la radiance del City e i riff elettrici dei Reds.
2/2. Nel centro della Terra di Mezzo: il Real Madrid
Nel centro della mappa - ma in posizione fluida, passibile di fluttuazioni verso est o ovest - troviamo due dei tre club dell’establishment per eccellenza, cioè Real e Bayern (il terzo è la Juve). Il Real di questa stagione è a sua volta, come il Siviglia, squadra schizofrenica: ma più che tra Liga e Coppa, la scissione è tra prima e seconda parte della stagione, quasi a specchio de percorso del suo leader tirannico CR7. Come già l’anno scorso, Cristiano - grazie all’apporto decisivo di Antonio Pintus - ha programmato un crescendo dello stato di forma per arrivare al top in primavera, con un andamento in Liga sconcertante: 4 gol nelle 19 partite d’andata, 18 nelle ultime 9 (e grande rimonta su Messi).
Anche se, ovviamente, per il finale di stagione del Real conterà molto anche l’atteggiamento e la modulazione di squadra. E qui, il quadro è sfocato. Vinta la prima Champions di pura inerzia (finale opaca a Milano con l’Atletico), Zinédine Zidane ha vinto la seconda (Cardiff) coronando un anno di ritocchi personalizzati (baricentro un po’ alzato, maggior pressing, varietà di soluzioni per mandare in rete più giocatori, il tutto orchestrato da sapiente turnover). In particolare, proprio a Cardiff, colpiva uno spostamento verso la «dimensione-Barça» con fasi di possesso insistito, centrocampo «esteso» (i centrali difensivi alti a impostare), ricerca sinergica di ampiezza/profondità. Quest’anno, sembra che la ricerca si sia arrestata: più che nel lavoro sistemico, ZZ sembra cresciuto nella lettura della partita, come mostra la facilità con cui ha disposto del Psg nel match al Bernabeu con cambi mirati (specie il fenomenale Asensio), un po’ come Allegri a Londra. E infatti anche, se non soprattutto, su questo - sull’incrociarsi delle letture in corso - si deciderà il quarto tra Juve e Real.
Il Bayern Monaco
Altrettanto se non più sfocato sembra infine il Bayern di Jupp «Osram» Heynckes (nickname per il suo accendersi-arrossarsi in viso nei momenti di tensione), rientrato a Monaco come un Cincinnato riluttante. In Bundesliga è riuscito a reimpostare velocemente la fase post-Ancelotti e a mettere un’ipoteca sul titolo con un filotto di vittorie ottenuto per lo più contro avversari di altra fascia (compreso un Dortmund in flessione, martellato 6-0 sabato sera); in Champions, il recente ottavo col modesto Besiktas è un passaggio troppo «liquido» per essere probatorio.
Ma anche qui si può trovare qualche sequenza orientativa nel lungo e nel breve periodo. Nel lungo: bisogna risalire alla Champions 2012-2013, in cui Heynckes (vincendola e suturando il trauma di quella persa l’anno prima in casa contro il Chelsea di Di Matteo) plasma un Bayern esemplare per coesione e potenza, con connotati di calcio totale (squadra cortissima, pressing full-court sincronico e costante, equidistanze a livello di singoli e reparti) che convergono nello stringere qualsiasi avversario in una camicia di forza, sterilizzandola. Perché se è vero che non mancano fortunati «colli di bottiglia» (gli ottavi al pelo con l’Arsenal), dai quarti in su la squadra è irresistibile: e più ancora della finale a Wembley (2-1 al BVB di Klopp), si ricordano i quarti contro la Juve di Conte e le semifinali contro il Barça, con due aggregate impietosi, (4-0 e 7-0), il secondo spiegabile solo in parte con la crisi blaugrana post-Guardiola e la panchina vacante per la malattia di Vilanova. Nel breve periodo, invece, basta risalire a Bayern-Psg 3-1 del 5 dicembre scorso, coi francesi già qualificati, ma arrivati a Monaco con uno score titanico (5 vittorie su 5, 24 gol fatti, 1 subito). Ribaltando le gerarchie dell’andata (3-0 a Parigi al Bayern di Ancelotti), la squadra di Heynckes vince con un calcio dinamico e intraprendente, minando l’autostima dei francesi e rafforzando la propria.
Troppo spesso si dimentica, in sintesi, che Herr Jupp è tecnico di rara completezza, di conoscenze e esperienza unica, duttile nel senso più alto: non è un caso sia tra i pochi ad aver vinto due Champions con club diversi; e se dovesse triplicare (difficile ma non impossibile) sarebbe il più anziano a vincere il trofeo (73 anni), superando un altro grande come Raymond Goethals (che l’ha vinto a 71 coll’Olympique Marsiglia). Intanto c’è il Siviglia: Bayern favorito, ma esito non scontato.
3.1 Fattori strutturali
A integrazione del paesaggio filosofico-tattico, bisogna sempre ricordarsi dei tanti co-fattori di incidenza, prescindendo da quelli più sfuggenti e insieme ovvii (caso, infortuni, espulsioni, errori arbitrali). Qualche esempio, tra miti e peso oggettivo. Tra quelli sottoposti a indagine statistica, il vantaggio nel giocare l’andata fuori casa, marcato fino agli ottavi ma che si attenua nei quarti ed evapora nelle semifinali per via del «sorteggio aperto» (vedi pezzo su Ultimo uomo) . Tra quelli strutturali, l’età media della squadra, coi quarti imminenti che riproducono la geografia della mappa: da una parte la Juve (29,0) all’opposto le inglesi (Liverpool 26,0 e City 26,4, poco sotto al 26,5 del Real); in mezzo, le altre, tutte sopra il 27 e sotto il 28. È un fattore che ricorda la «coperta corta» tra due vantaggi contrastanti: l’esperienza (controllo emotivo, malizia gestionale, familiarità col livello di gioco) e la reattività-resistenza (comprensiva dell’incoscienza-intraprendenza creativa).
3.2 Fattori contingenti
E tra quelli contingenti, i calendari e i loro intrecci, specie tra Champions e campionati (fattore decisivo e quasi sempre rimosso, insieme allo stato di forma). Una prima variabile - dovuta all’Uefa - è data dalle differenze-disparità di cadenza andata/ritorno: anche in questi quarti, due sono distanziati da otto giorni (Juve e Real, Siviglia e Bayern) e due solo da sei (Barça e Roma, Liverpool e City), Variabile solo in apparenza neutrale (in realtà i primi quattro team sono avvantaggiati sui secondi quattro), ma che diventa dirimente se accavallata a un’altra: gli impegni intermedi a livello nazionale. A somma di tutto, c’è un esempio-paradigma dell’aprile 2012, quando il Barça di Guardiola e il Real di Mourinho (impegnati nelle semifinali Champions contro Chelsea e Bayern) si trovano piazzato tra andata e ritorno un Clasico decisivo per la Liga (vincerà il Real al Camp Nou 1-2): condizionati sia prima (per cercare di risparmiarsi) che dopo (prosciugati di energie psico-fisiche), uscivano tutti e due, frustrando le aspettative globali di un epico «scontro finale» annunciato; col Barça, oltretutto, ulteriormente svantaggiato dai sei giorni di distanza tra andata e ritorno. Nei prossimi quarti si profilano condizionamenti forse non così estremi, ma comunque di peso. Certo, conteranno anche i match precedenti l’andata (il Milan per la Juve o il frontale Siviglia-Barça, che ha impedito a Messi di stare ai box come CR7): ma, ancora una volta, conteranno soprattutto i match tra andata e ritorno.
La Juve avrà ad esempio il Benevento, il Real il derby con l’Atletico: e anche se il vantaggio sembra compensato dalle diverse situazioni di classifica (Juve ancora in tensione per il titolo, Real solo con la Champions), un derby è sempre un derby, specie se giocato al Bernabeu, con le pressioni relative. Il che vale a maggior ragione per il City, che si troverà tra i due match ferocemente sfibranti col Liverpool (oltretutto - handicap cui il Pep sembra abbonato - distanziati da sei giorni) il derby con lo United: anche lì, pur a Premier acquisita, non sarà facile all’Etihad esagerare col turnover o giocare in souplesse, specie contro un Mourinho tutt’altro che indifferente alla doppia possibilità di «rovinare la festa» all’Avversario (impedirgli il titolo matematico davanti al suo pubblico) e contribuire a trascinarlo con sé nel black hole della Champions.