“IL CALCIO È STATA TUTTA LA MIA VITA. MA RESTA LA FAMIGLIA IL MIO TROFEO PIÙ BELLO” – SINISA MIHAJLOVIC RACCONTATO DA ANDREA DI CARO (GAZZETTA) - IL PRIMO INCONTRO AL RISTORANTE “L’ULTIMA FOLLIA” A ROMA CON ARIANNA “CHE APPENA L’HO VISTA HO PENSATO, IO ME LA SPOSO. E CHE BELLI SARANNO I NOSTRI FIGLI...” – MIHAJLOVIC NON MOLLAVA MAI, ANCHE NEGLI ULTIMI GIORNI STUDIAVA CALCIO E FACEVA PIANI: “ANDIAMO A LONDRA A TROVARE CONTE

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Andrea Di Caro per la Gazzetta dello Sport

 

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Ora che sei già lì, voglio immaginarti com’eri, guascone e sorridente, in calzoncini e maglietta attillata a evidenziare quei bicipiti e quegli addominali di marmo, per quanto erano duri, con un pallone sotto al braccio. Si fa avanti Diego: “E tu che ci fai qui?”. “Sono venuto a sfidarti... Chiama Yashin o chi vuoi tu per stare in porta. Con la barriera o senza, non fa differenza. Diego, tu sei stato il più grande, ma a calciare le punizioni non esiste un sinistro come il mio”. 

 

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Mentre prendi la rincorsa voci d’angelo intonano i cori delle curve del tuo cuore: “Pobedi Sinisa” (Vinci Sinisa), “E se tira Sinisa è gol…”. Spiegherai anche lassù che hai sbagliato più rigori che punizioni e come cambiavi all’ultimo il modo di tirare in base al movimento del portiere. Prenderai per il culo qualcuno dopo averne messe cinque di fila sotto all’incrocio e poi inviterai tutti a cena, perché “poi andiamo a mangiare” è una delle frasi che ti ho sentito ripetere più spesso. 

 

Cibo serbo, ovviamente, quello che digerisci solo tu, con i favolosi sarma che ti cucinava tua madre. Ma prima una grappa secca delle vostre, “che ti apre lo stomaco e fa venire appetito”. Ne ordinavi sempre due, una per te e una in ricordo di tuo padre. Stavolta ne basterà una sola, perché lui sarà accanto a te a bere la sua.

 

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Mi sembra di vederti mentre racconti a tutti gli episodi della tua infanzia difficile, che ti hanno formato, della serranda davanti casa presa a pallonate per ore ed ore, i campi polverosi pieni di macellai prestati al calcio, la prima macchina a Borovo, la mitica Zastava Skala 128, e i riccioli al vento a cui tenevi tanto, fino ai successi prima col Vojvodina e poi con la tua Stella Rossa regina d’Europa... Poi ti fai serio e scende qualche lacrima quando rivedi i fotogrammi di una guerra fratricida, assurda e sanguinosa. 

 

“Un impazzimento della storia” lo definivi. La tua casa distrutta dal tuo migliore amico croato, Pipe. Le amicizie pericolose e gli errori di valutazione “ma bisognava essere lì e vivere l’orrore che ho vissuto io prima di giudicare”. E finalmente l’Italia, i primi vestiti di Versace e il gusto che si affina, la carriera che prende il volo e porta agiatezza e soldi che “mi consentono di vivere bene, li spendo, ma non li sperpero perché non dimentico il passato, i sacrifici fatti e che da bambino la felicità era un pezzetto di banana”. 

 

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Roma, Samp, Lazio, Inter, che spettacolo eri da calciatore, che classe e che personalità. Successi, polemiche, trofei, gol e tackle… Dal campo alla panchina sempre a petto in fuori, “perché io gioco solo per vincere e la sconfitta mi fa incazzare”. Vice del tuo amico Mancini all’Inter, quindi Bologna, Catania, Firenze, la Nazionale serba, Samp, Milan, Torino, Bologna.

 

“Il calcio è stata tutta la mia vita” e l’hai vissuto con passione e dedizione assolute. “Ma resta la famiglia il mio trofeo più bello” aggiungevi subito. Il primo incontro al ristorante “L’ultima follia” a Roma con Arianna “che appena l’ho vista ho pensato, io me la sposo. E che belli saranno i nostri figli...”. 

 

mihajlovic e le figlie mihajlovic e le figlie

uando in ospedale non ne potevi più, mi confidavi che l’unico sollievo era incrociare i suoi occhi incastonati tra cappellino e mascherina: “Non so spiegarti quanto siano belli, dopo quasi 30 anni Arianna mi fa battere il cuore come la prima volta”. Lo dicevi a me e spesso non avevi il coraggio di dirlo a lei, capoccione di un serbo.

 

 I vostri cinque figli, tre maschi Miroslav, Dusan e Nikolas “che sono diventati più alti e grossi di me” e due ragazze bellissime, Viktorija e Virginia, di cui eri geloso. Fino a Violante, il gioiello che ti ha reso nonno. Sognavi una vecchiaia da cartolina: “Io a capotavola, una lunga barba bianca e tutta la famiglia intorno, figli e nipoti. A noi serbi piace così”.

 

mihajlovic moglie mihajlovic moglie

Nel 2019 quando annunciasti al mondo che avevi la leucemia, quella cartolina che avevi in testa sembrò finire in mille pezzi: “Ho pianto tutte le mie lacrime, ora me la gioco e vediamo chi vince” hai detto prima di entrare al Sant’Orsola. L’hai sfidata la malattia e l’hai affrontata con un coraggio e una resistenza inimmaginabili. Non è retorica. Chi è stato accanto a te in questi anni, dentro e fuori dagli ospedali, lo sa. 

 

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I medici che ti hanno bombardato con cicli di chemio, trapianti, cure di ogni tipo, si sono chiesti spesso come facesse il tuo corpo, minato da tante complicazioni dolorose, a resistere e a reagire: “Ha una forza fisica e psicologica sovrumana”. Il Bologna seguito da una stanza di ospedale, il ritorno in campo a Verona nell’agosto 2019, sfinito ma in piedi, un’immagine potentissima: “Ero più morto che vivo, ma avevo promesso che ci sarei stato. Non c’è nulla da nascondere e di cui vergognarsi nell’essere malato”.

mihajlovic e la moglie mihajlovic e la moglie

 

 Il primo trapianto, il recupero veloce, quasi impressionante: “Mi sento meglio adesso che a 20 anni, se lo avessi saputo l’avrei fatto prima”, provavi a scherzare come sempre. Ma senza irridere mai la malattia “perché rispetto il mio avversario, ma farò di tutto con l’aiuto della medicina per batterla e guarire”. Avevi imparato a commuoverti: “Ora piango spesso e apprezzo ogni piccola cosa”. Non ho mai visto un uomo lottare come te, Sinisa. Mai. Né uno così ferocemente attaccato alla vita.

 

La tua vita intrecciata alla mia mi riporta alla mente anni felici di un’amicizia fortissima, fraterna, nata d’estate a Porto Cervo in occasione della tua prima intervista da neo tecnico della Fiorentina. Venisti ad aprire il cancello di Villa Serbia: eri in costume da bagno, muscoli gonfi, tatuaggi e la faccia da duro. Minchia, quanto è grosso, pensai... Eri stato accolto a Firenze con diffidenza, a causa di vecchie tue dichiarazioni su Arkan. In giardino ti guardai negli occhi e misi giù la penna: “Sono qui per raccontarti non per giudicarti”. 

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Parlammo di tutto compresi gli argomenti che avevano portato molti a puntarti il dito contro. Ci sono incontri che fanno sbocciare qualcosa di unico. Il rapporto professionale ha lasciato in pochissimo tempo il posto alla stima, alla fiducia, all’amicizia. Telefonate lunghe e continue, pranzi e cene (madonna quante cene, mi hai fatto prendere 7-8 chili), confidenze, interviste. Mai mi hai chiesto un favore sul giornale, mai ho parlato delle tue squadre nei miei commenti al campionato. Consigli sì, di quelli ce ne siamo dati tanti: “Harry, ho bisogno di te...”. 

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Mi chiamavi così perché sostenevi che risolvevo problemi come Harry Potter che ti ricordavo per gli occhiali e il fisico lontano dal tuo. Abbiamo parlato di calcio e di vita, abbiamo “fatto nottata” dopo certe partite perse che non ti facevano prendere sonno. Abbiamo riso, scherzato, ci siamo abbracciati e non ricordo un litigio. Ma abbiamo discusso anche e qualche volta ti ho detto: “No, Sinisa questa è una cazzata...”. Un privilegio che concedevi a pochissimi.

 

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 Non era facile convincerti, ma da uomo intelligente stavi ad ascoltare. E come una spugna facevi tue le cose che ritenevi giuste. Brillante, sveglio, paraculo, ma profondamente leale ed onesto. Con un codice di valori chiaro, virile, non facile da smussare. Preciso, puntuale e con un incrollabile senso del dovere. Eravamo diversi ma compatibili e forse per questo ci siamo trovati e voluti così bene. 

 

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Mi piacerebbe ricordare solo il cazzeggio tra noi, ma non mi vanno via dalla testa quelle due telefonate. La prima, raggelante con cui mi svegliasti quella maledetta mattina di luglio: “Ciao Harry, devo dirti una cosa: non ho la febbre. Ho la leucemia”. E la seconda, forse anche peggiore: “È tornata, Andre’…”. E scusa se piango mentre me le ricordo, saranno gli anni che passano, ma non le tengo più dentro le emozioni.

 

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Ci siamo sentiti al telefono domenica scorsa: “Ho avuto la febbre, ma ora mi sento meglio...” mi avevi detto con voce fioca ma viva. E avevi aggiunto particolari di tutte quelle complicazioni che continuavi ad avere e ogni volta mi chiedevo come facevi a sopportare tutto questo. Ci eravamo dati appuntamento a Roma: “Magari andiamo a mangiare...” mi avevi proposto. “Ma sì Sinisa dai vediamo, possiamo anche prendere un caffè a casa. Basta stare insieme”. 

 

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Sapevi di stare male. “Se non funziona questa, è finita...”. Però non mollavi, perché non hai mai mollato in vita tua, e continuavi a leggere libri che potessero essere utili per il tuo lavoro e a programmare: “A gennaio facciamo un’intervista, andiamo a vedere qualche partita insieme. Vorrei andare un paio di giorni a Belgrado. Poi magari si va a Londra a trovare Conte e a vedere gli allenamenti”. “Ma sì certo, Sinisa, faremo tutto. Un passo alla volta...”. “Step by step...”. 

 

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“Bravo, vedo che l’inglese non lo hai dimenticato”. “Ciao Harry”. “Ciao Sini, ti chiamo domani...”. E invece la telefonata me l’ha fatta tua moglie Arianna, una leonessa come te. Sono sceso di corsa da Milano e mi sono presentato in clinica con la scusa che avevo anticipato il viaggio. E, nonostante tutto, sei riuscito a scherzare ancora. Ti ho proposto: “Quando ti passa questa ennesima rottura di palle, vengo a camminare con te. Devo perdere qualche chilo...”. “Lo vedo, sembri Ciccio bello”. Il resto, lo teniamo per noi... 

 

Ti piaceva fare sorprese, l’ultima a Zeman a inizio dicembre, in occasione della presentazione del suo libro, la tua prima uscita pubblica dopo tanto tempo. Ti avevo visto il pomeriggio a casa tua e avevo pensato: non ce la fa a venire. Invece, come da accordi, sei arrivato, elegante e fashion come sempre, gli hai dato un bacio e l’hai fatto commuovere. Io so che sacrificio hai fatto per esserci. E sono felice che le ultime immagini pubbliche di te siano quelle sorridenti di quella sera. Zdenek, che usa poche parole, ma non le sbaglia quasi mai, oggi ti ha salutato così: “Era eroico”.

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Ti ho visto magro come una stampella, trascinarti stanco in una stanza di ospedale, ma per me sei sempre rimasto un gigante. Però ti ho visto anche soffrire troppo in questi anni. Troppo. Come un pugile, cadevi, ti rialzavi, e tornavi a combattere. “Ti capisco Sinisa...”, ti ho detto durante uno dei tuoi ricoveri. “No, Andre’ non puoi capire”. Avevi ragione, non si poteva capire. 

 

La “Partita della Vita” è finita. Restano lacrime, ricordi e sorrisi. Leggetela la sua autobiografia, leggetela. Scoprirete un uomo non perfetto, ma assolutamente straordinario. Inizia così: “Mi chiamo Sinisa e sono nato due volte... Ma di vite ne ho vissute molte di più”. E adesso riposa, amico mio carissimo. Ci rivedremo un giorno.

 

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