Angelo Allegri per il Giornale
Agosto 1992. Sul campo del Manchester City c' è aria di festa: per la partita con il Queens Park Ranger ci sono fuochi d' artificio, musica e majorettes. È il primo Monday Night del calcio inglese: per la prima volta si spezza la sacralità degli incontri concentrati il sabato pomeriggio e il week end si allunga con una formula direttamente copiata (nome compreso) dal football americano. Ad approfittarne la pay tv di Rupert Murdoch, BSkyB, che poche settimane prima aveva siglato il primo contratto di esclusiva con i club inglesi e che per la ripresa dell' incontro usa tecniche, come l' uso intensivo del replay, fino ad allora inedite.
Quel lunedì sera è diventato nel tempo una data simbolica e segna l' atto di nascita di uno dei fenomeni sportivi, economici e culturali più rilevanti degli ultimi anni: la Premier League, il campionato di calcio più famoso al mondo. I ventisei anni trascorsi da allora segnano una cesura profonda: all' inizio degli anni Novanta il calcio britannico è in crisi, oscurato da campionati come la Serie A, allora in pieno fulgore. Nel maggio dell' 85 scoppia un incendio nello stadio del Bradford: 56 morti; poche settimane dopo gli hooligan del Liverpool fanno 39 vittime all' Heysel di Bruxelles; nel 1989 all' Hillsborough Stadium di Sheffield i morti per la calca sono 96.
Anche in conseguenza di queste stragi gli stadi si svuotano, la copertura televisiva è praticamente inesistente. Tutto il contrario di oggi: la Premier League è un colosso sportivo secondo solo al basket dell' Nba e al football americano della Nfl, garantisce ai suoi club incassi annui per 5,3 miliardi di euro, il valore delle squadre è passato dai 50 milioni del 1992 ai 10 miliardi di oggi. E non ci sono solo i dati finanziari.
I Paesi in cui vengono trasmesse le partite sono 185, praticamente l' intero globo terrestre, visto che le nazioni aderenti all' Onu sono di poco superiori, 193. Quando il primo ministro britannico viaggia nel mondo, soprattutto in Asia, porta spesso con sé i dirigenti della Premier e la Coppa, che viene esposta quasi come una reliquia ed è considerata uno dei testimonial più efficaci della british way of life. «Ormai siamo un simbolo del Paese», ha detto in un' intervista Richard Scudamore, il manager che per quasi 20 anni e fino al 2018 ha guidato la Premier.
Tra i due estremi c' è il percorso che ha portato alla creazione «di uno dei più grandi imperi dell' intrattenimento dell' era moderna», come hanno scritto in un libro appena uscito, The Club», due giornalisti del Wall Street Journal, Joshua Robinson e Jonathan Clegg. Il punto di partenza è la decisione presa da un pugno di persone di vedere il calcio come una forma di spettacolo da cui ricavare un ritorno finanziario. Prospettiva che appare oggi quasi ovvia ma del tutto estranea al calcio inglese degli anni 80. Tra i «pionieri» ci sono David Dein, azionista e manager dell' Arsenal, Irving Scholar, immobiliarista e padrone del Tottenham, Martin Edwards, erede di un piccolo impero nel settore della macellazione e patron del Manchester United. A loro si aggiungono i vertici dell' Everton e del Liverpool. In tutto una ventina di squadre decidono di uscire dalla vecchia First division.
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Il modello è la National Football League, il massimo campionato americano di football americano, e la scelta è quella di puntare sui diritti pagati dalle televisioni a pagamento, scommettendo sul fatto che i nuovi incassi non siano destinati a cannibalizzare quelli degli spettatori sui campi da gioco. Ma non è solo questione di tv. A Dein, vice presidente dell' Arsenal, viene attribuita una vera e propria ossessione per i bagni.
Durante un viaggio negli Stati Uniti paragona lo stato dei servizi nelle arene americane con quelli dei malandati stadi inglesi dell' epoca. I nostri tifosi non sono capi di bestiame, ma spettatori di uno show, dice, bisogna rispettarli. Anche per tenere lontani gli hooligan le tribune di molti impianti vengono ristrutturate, rese più comode ed accoglienti. Il Tottenham è la prima squadra ad abbattere un settore destinato al pubblico più popolare e a sostituirlo con dei box che, affittati alle aziende, garantiscono una ritorno economico molto più rilevante.
A risultare decisivo per lo sviluppo di un campionato competitivo, in grado di mantenere alto l' interesse del pubblico, è una clausola contenuta già negli accordi costitutivi della Premier: i 20 club di élite decidono che i proventi televisivi saranno distribuiti con criteri egualitari. Tra il club meno seguito e quelli maggiori non si potrà superare il rapporto 1/1,6. È una caratteristica tipicamente inglese che si allontana dal metodo seguito in quasi tutti gli altri Paesi: in Germania e Spagna il rapporto tra quanto incassato dalle squadre più piccole e dalle grandi è 1 a 3, in Italia supera addirittura l' 1 a 4. Il risultato è che in Inghilterra anche gli ultimi in classifica hanno proventi di rilievo: un club come il Sunderland nell' anno in cui è stato retrocesso, il 2017, ha incassato 93,4 milioni, più o meno quanto versato dalla Lega francese ai campioni del Psg.
I SOLDI E LE BIG SIX Diritti televisivi, massimizzazione degli incassi per la vendita dei biglietti (il tasso di riempimento degli stadi è pari a uno stupefacente 95%), un merchandising che copre cinque continenti hanno innalzato a livelli record gli introiti delle squadre. Ovviamente inglese è la squadra che incassa di più al mondo (con il Real Madrid), il Manchester United con 676 milioni di euro.
A favorire l' ascesa del calcio dell' isola, dicono Robinson e Clegg, sono due fattori che sembrano quasi ovvi, ma che hanno contato molto: prima di tutto il fatto che i protagonisti, calciatori e allenatori, usano la lingua del mondo, l' inglese; in secondo luogo che l' orario scelto per gran parte delle partite, il sabato pomeriggio, è perfetto per un prime time televisivo in Asia, ma che si presta anche a un consumo tv del sabato mattina negli Usa.
Ora il dubbio è che la corsa possa continuare. Robinson e Clegg sottolineano le prime crepe, come gli inediti dissidi per l' accaparramento di una fetta maggiore degli incassi internazionali (le big six, Chelsea, Arsenal, Tottenham, Livepool, Manchester City e United, si sono appena assicurate una fetta più grossa dei diritti internazionali). A pesare poi è una questione più profonda. I club inglesi sono ormai marchi globali con fan ovunque nel mondo. Ma l' appeal internazionale, accompagnato da prezzi più alti, rischia di mettere in crisi e di allontanare il supporter più fedele: l' inglese medio che fonda sulla propria squadra una fetta di identità personale.
2. CAMBIO DELLA GUARDIA
Da il Giornale
La mente dietro i successi della Premier League è stata per molti anni quella di Richard Scudamore, che dal 1999 al 2018 è stato il numero uno manageriale e che ha contribuito a lanciare il campionato sui mercati internazionali. La sua storia è interessante anche perchè consente di sottolineare le differenze del modello inglese con quello italiano.
Scudamore, gallese di Cardiff, ha lavorato per molti anni nel settore delle Pagine gialle. Poi si è trasferito negli Stati Uniti dove è stato assunto dal gruppo Thomson Reuters, gestendo tra l' altro una catena di giornali locali. Al calcio è arrivato rispondendo a un annuncio sul Times di Londra: i campionati professionistici che stanno al di sotto della Premier (l' equivalente, per capirsi, della Serie B e C italiane) cercavano un manager. Poi la promozione nella massima divisione.
Scudamore è famoso tra l' altro perché teneva personalmente i rapporti con le emittenti televisive che trasmettono le partite inglesi nel mondo e gestiva direttamente le trattative. Da questo punto di vista la situazione italiana è molto diversa visto che la Lega Calcio affida in pratica l' intero pacchetto a un unico intermediario (per il periodo 2018-2021 è Img). Diverse anche le somme incassate: il calcio italiano ricava dai contratti internazionali 340 milioni di euro, la Premier circa 1,2 miliardi.
Dopo tanti anni al vertice (e guadagni complessivi pare vicini ai 30 milioni di euro) Scudamore ha di recente lasciato l' incarico. E la sostituzione si presenta tutt' altro che facile, visto che, secondo indiscrezioni giornalistiche, già un paio di candidati hanno rinunciato alla poltrona. A motivare dubbi ed esitazioni sono probabilmente le difficoltà di mercato. Dopo la crescita impetuosa degli ultimi anni, la corsa dei ricavi sembra aver rallentato. Per quanto riguarda i diritti tv, per esempio, il rinnovo dei contratti tv sul mercato inglese ha mostrato un leggero calo nel prezzo unitario pagato dalle televisioni per ogni partita trasmessa. Va notato che al contrario di quanto accade in Italia non tutti i match sono trasmessi sul piccolo schermo.
3. PIÙ CHE UN' ASSOCIAZIONE INGLESE SEMBRA UN' ASSEMBLEA DELL' ONU.
Da il Giornale
Più che un' associazione inglese sembra un' assemblea dell' Onu. In Premier League la lista dei proprietari dei club è un susseguirsi di nomi esotici e provenienze disparate. Su 20 squadre quelle in mano britannica sono solo cinque: West Ham, Newcastle, Huddersfield, Brighton e Burnley. Per il resto a dominare sono gli americani, ben sei, seguiti da cinesi (due) e russi (anche loro due, Roman Abramovic al Chelsea e Maxim Demin, diventato miliardario grazie al trading di prodotti petrolchimici e azionista di maggioranza del Bournemouth). Con loro ci sono thailandesi, arabi degli Emirati, malesi e italiani (la famiglia Pozzo, che controlla il Watford e in Italia l' Udinese).
Una delle storie più interessanti è quella di Farhad Moshiri, iraniano, proprietario dell' Everton: scappato in Occidente con la famiglia nell' anno della rivoluzione khomeinista, ha studiato a Londra e fatto i soldi nel settore dell' acciaio. Vive a Montecarlo ma ha la passione del calcio inglese: prima era arrivato a controllare il 30% dell' Arsenal, poi si è indirizzato verso la seconda squadra di Liverpool.
Tra i proprietari di passaporto americano spicca il caso di Shahid Khan, nato in Pakistan, arrivato negli Usa a 16 anni (primo lavoro: lavapiatti) e poi diventato uno dei magnate nel settore della componentistica per auto. In America controlla i Jacksonville Jaguars, squadra di football americano della Nfl, e un circuito professionistico di wrestling. Nel 2013 ha comprato il londinese Fulham da Mohamed El Fayed (egiziano, è il padre di Dodi, l' ultimo fidanzato di lady Diana, morto con lei a Parigi).
L' interesse internazionale verso i club inglesi è tale che è ormai indirizzato anche verso la Championship, l' equivalente della serie B: sulle 24 squadre iscritte, i proprietari stranieri sono già 13. E anche in questo caso c' è un italiano, Andrea Raddrizzani, patron del Leeds, manager del settore e consulente dei cinesi di Suning nell' acquisto dell' Inter.
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