Questo dialogo-intervista tra uno scrittore famoso e un campione di tennis che ha fatto la storia dello sport avviene a poche settimane dalla presentazione di «Una squadra», docu-serie Sky Original in sei puntate «da vedere tutte d’un fiato» come ha scritto sul Corriere Aldo Grasso, «perché mescolano sport e politica, tv, storie personali e versioni discordanti di quelle stesse storie». In questo incontro con Sandro Veronesi (tra gli autori della serie) raccontato sulle pagine di 7 in edicola il 22 luglio, Adriano Panatta ribadisce la sua versione, ma anche l’emozione di ritrovarsi con i vecchi compagni di gioco 46 anni dopo la conquista della Coppa Davis. Buona lettura
Come va, Adriano?
«Come gli antichi».
La prima cosa che vorrei chiederti è questa: il tennis fino agli Anni 60 era uno sport d’élite, lo giocavano i bon vivants, le persone ricche, Pietrangeli. Poi arrivate voi: tu, il figlio di un custode, Bertolucci, il figlio di un maestro, Barazzutti, il figlio di un vigile, e Zugarelli, diciamo, un ragazzo di strada. Arrivate voi, vincete la Coppa Davis e il tennis in Italia diventa uno sport popolare. C’era un po’ di orgoglio sociale, diciamo così, nelle vostre vittorie? L’orgoglio del figlio del custode che espugna uno sport un po’ classista?
«No, onestamente no. Non ho mai avuto voglia di rivincite sociali, perché non conosco l’invidia. Anche quando ero piccolino e abitavo dentro al Tennis Parioli e vedevo questi che arrivavano con le automobili, non ho mai avuto invidia, perché ero un bambino molto felice.
E poi io al Parioli ci sono stato fino ai 9 anni, e non frequentavo il circolo. Stavo nella mia casa dietro il circolo, che era recintata. Avevo il mio muro dove giocavo a tennis tutto il giorno. Non giocavo con i soci, non mi ricordo di aver mai giocato con i soci».
Appunto. E questo non ha lasciato nessuna volontà di rivalsa, nulla?
«No, ti giuro: zero. Perché non mi mancava nulla. Poi successe che arrivarono le Olimpiadi a Roma, per cui il Circolo Tennis Parioli di viale Tiziano fu dismesso e il mio papà perse il lavoro. Fece domanda di un nuovo impiego al Coni e lo mandarono alle Tre Fontane, all’Eur, davanti al Luna Park, dove c’era il Centro Coni di tennis, e noi andammo ad abitare lì dentro. Capito? Di nuovo dentro un circolo. Ho vissuto per 18 anni dentro un impianto da tennis. Per cui non è che mi accorgevo che il tennis era d’élite. Io ci abitavo, nel tennis».
Un’altra cosa che vorrei chiederti, relativa a questa serie televisiva che hai fatto insieme ai tuoi ex compagni di Coppa Davis: mentre il tuo rapporto con Paolo Bertolucci è sempre rimasto vivo, ho avuto l’impressione, correggimi se sbaglio, che il tuo rapporto con Barazzutti e Zugarelli si sia come rivitalizzato. Che fare questa cosa insieme sia stata un’ultima vera emozione legata a quell’avventura di quarant’anni fa. Mi sbaglio?
«No, è un’impressione giustissima. Perché io Zugarelli l’avevo visto ogni tanto, molto di rado, quando giocavamo a golf insieme, mentre con Barazzutti ci eravamo proprio persi di vista. Ci siamo incrociati, che ti posso dire, una volta o due al Roland Garros, a vedere il torneo, ma proprio di sfuggita: “Ciao Corrado”, “Ciao Adriano”, tutto qua».
Invece ho visto che c’è dell’affetto.
«Ma l’affetto c’è sempre stato. Può succedere però che col tempo si assopisca un po’, diciamo così. Invece nell’occasione di Torino, quando la serie è stata presentata, c’è stata una specie di magia che lo ha risvegliato, ed è ricominciato tutto da capo».
Anche perché, diciamolo per l’ennesima volta, una celebrazione per voi, squadra di Davis, non c’era mai stata.
«No».
Voi siete arrivati a Fiumicino con la coppa in mano e nessuno vi si è filato. Niente.
«No».
Nemmeno dopo. Dieci, venti, trent’anni dopo. Niente
«No, assolutamente».
Perciò l’impressione è che Una squadra , col successo che ha avuto e ha ancora, abbia anche un valore risarcitivo, per voialtri cinque.
«Questo sicuramente, perché oltretutto molta gente non ci conosceva. Ci conosceva magari per i risultati sportivi, ma non è che conoscessero le persone. Invece da tutte queste interviste è uscito il lato straordinariamente umano e malinconico di Zugarelli. È uscita una vena ironica di Barazzutti, e la sua bella proprietà di linguaggio. L’ironia di Paolo nei miei confronti, la mia nei confronti un po’ di tutti. È uscita anche la personalità di Pietrangeli. È venuto fuori tutto ciò che eravamo davvero».
È venuta fuori la profondità dell’amicizia tra te e Bertolucci, confessata nella sua interezza dentro la serie.
«Sì, e posso dirti una cosa? Quando lui dice “Io ho avuto due sorelle e il fratello che non ho avuto è Adriano”, io sono rimasto molto colpito».
Anch’io, perché si sentiva che era una cosa vera.
«Anche se non l’ho detto, mi ha colpito molto. Non glielo dirò mai, ma lo dico a te».
Va bene.
«Metti caso che tu lo scrivi».
Chissà. Hai visto mai.
«E puta caso lui lo legge. Perché non lo credevo, ti giuro. Non credevo».
Poi c’è una cosa che dice Barazzutti e che ha toccato me. Lui era stato il numero 1 mondiale a livello juniores, aveva vinto l’Orange Bowl, e a un certo punto dice “Tra i professionisti ho fallito, sono arrivato solo al numero 7”. Cioè, lui ci aveva creduto, e quindi c’è questa nota malinconica perché non è mai diventato numero 1. Ce l’hai avuta pure tu questa delusione? Anche tu ci sei rimasto male a esserti fermato al numero 4?
«Non vorrei sembrare cinico però no, non me ne frega niente. La cosa di cui sono orgoglioso, ti dico la verità, è che nel ‘76 secondo me io sono stato il numero 1 al mondo sulla terra battuta, che è la superficie dove sono cresciuto. Aver dimostrato questo per me è più che sufficiente. Mi hanno sempre accusato che non mi allenavo abbastanza, ma non è vero. Anzi, non è che non sia vero, è proprio posta male la questione, perché se uno è qualcosa non può essere anche un’altra cosa. Io sono quella cosa lì, quello che si vedeva, io che vincevo e anche io che perdevo».
Una delle cose che sono state sicuramente più gratificanti per te te l’ho sentita raccontare e ti chiederei di riraccontarmela. È successa mi pare nello spogliatoio di Palm Springs e ha come protagonista Arthur Ashe...
«No, sai dov’era? Era a Palm Desert, perché si fece un anno a Palm Desert, che poi sarebbe diventato Palm Springs...»
Me la racconti? Perché è bella.
«Allora io quell’anno non giocavo tanto bene, credo fosse il 1981. Lendl è entrato negli spogliatoi e io stavo lì seduto insieme ad Arturo. Lendl mi fa ciao... Lui ce l’ha sempre avuta con me per quello scherzetto che gli ho fatto in Coppa Davis».
Sì, quel servizio smorzato che gli hai fatto, ridicolizzandolo. Nella serie si vede.
«Stava attaccato alla rete di fondo, lontanissimo: lo so che tra professionisti non si fa ma è stato più forte di me e gliel’ho fatto. E insomma Lendl entra nello spogliatoio e mi fa “dove giochi settimana prossima?”. E io rispondo a Las Vegas. E lui fa “Ah, ma entri nel tabellone o devi fare le qualificazioni?”. Io stavo per mandarlo affanculo e invece Arturo ha alzato gli occhi e ha detto “Ivan, non mi sembra che tu abbia già vinto uno Slam, giusto?”.
Ricordi che Lendl non riusciva a vincere un torneo dello Slam? Era già fortissimo, il numero 2 del mondo, ma gli Slam ancora non li vinceva, e Arturo gli ha detto: “Tu stai parlando col Signor Panatta, che fa parte del nostro club; per cui quando ti rivolgi a lui dovresti chiamarlo Mister. Prima vinci uno Slam e poi fai queste battute stupide”. Ma Arturo era un personaggio meraviglioso. Era un aristocratico».
Altri grandi?
«Lew Hoad. Forse ti ho già raccontato quando Lew Hoad a Wimbledon mi ha insultato».
No. Non la so questa storia.
«Allora, Lew Hoad: tu lo sai chi è?»
Diamine. Pietrangeli mi ha detto che è il più forte giocatore che abbia mai incontrato.
«Lew Hoad quando era in giornata anche Lever diceva che era ingiocabile. E Lew Hoad, non so per quale motivo a un certo punto venne a giocare in Italia, credo fosse il suo ultimo anno, e giocammo insieme credo a Lecce, pensa, un torneo. E poi andammo a Wimbledon. E un pomeriggio io stavo nel bar dei giocatori di Wimbledon e stavo ordinando da bere al bancone e c’era anche Hoad insieme a non ricordo chi, tipo John Barrett, e lui mi viene vicino e mi fa: “Volevo dirti una cosa che non ti ho mai detto: tu sei veramente una testa di cazzo”...»
Salute!
«Io ho detto “ma come, Lew, ma che ti ho fatto?”. “No, sei una testa di cazzo perché tu questo torneo potresti vincerlo quando ti pare e non lo vinci. Pensaci”. Allora io ero, e sono ancora - non lo vedo mai, purtroppo -, amico di John Newcombe. Vado da lui e gli dico “John, cazzo, Lew mi ha detto questa cosa” e John mi fa “Ti ha fatto un complimento immenso. Lui i compimenti non li fa mai. Ti ha detto che sei una testa di cazzo ma è il suo modo di farti un complimento perché pensa che tu possa vincere Wimbledon”.
Io allora chiedo a John se mi insegna un po’ a giocare sull’erba, e lui mi fa “guarda, questo weekend vado a casa di miei amici qui vicino a Londra, dove hanno un campo da tennis. Vuoi venire con me?” E dunque andammo lì e giocammo su questo campo in erba, e lui mi spiegò un po’ tutte le geometrie del gioco sull’erba: cioè la volée in campo aperto, come muoversi, come coprire la rete, e io l’ho trovata una cosa bellissima, che un giocatore, tuo avversario, si mettesse lì a farti migliorare. C’era ancora questa roba qua, allora, ma va detto che gli australiani sono sempre stati delle persone eccezionali».
Di Lendl abbiamo detto. Altri antipatici, rosiconi? Qualcuno che era particolarmente piacevole battere?
«Connors. Connors quando l’ho battuto ho goduto tantissimo e ho sofferto tantissimo quando ho perso quel match a Flushing Meadows in cui stavo giocando così bene e ci stavo facendo un pensierino. Tu pensa che lui quel torneo l’ha vinto non perdendo mai un set: solamente con me ha vinto 7-5 al quinto».
Eh sì, me lo ricordo.
«Lui sì, era particolarmente antipatico in campo e fuori: voleva fare lo spiritoso ma non ci riusciva».
Ora ti chiedo però di quello che per me è un mistero: Borg. Mi parli un po’ di lui?
«Allora, io come forse tu sai chiamo Borg “il matto calmo”. Perché lui è il matto calmo. Cioè anche per come giocava, c’era una vena di pazzia, no? Sempre con quella testa bassa quando cambiava campo. Non sorrideva mai. Io ho visto chiunque fare un sorriso in campo: lui no. Lui finché ha giocato era una persona, poi si è trasformato.
Proprio - è un’esagerazione, ovviamente - come dottor Jekyll e Mr Hyde. In campo lui era Jekyll, Hyde ogni tanto dava qualche segnale ma lui riusciva a controllarlo. Aveva sempre questo atteggiamento freddo, rigido, e sopportava, anche quando non giocava bene, non faceva mai una mossa di stizza. Ma si vedeva che aveva paura di Hyde. Quell’Hyde che poi, dopo che ha smesso di giocare, è venuto fuori e lui ha cominciato a essere tutti e due».
Ti piace il tennis di adesso?
«Allora: se vedo giocare Federer, Nadal, Djokovic, Murray, anche Berrettini, sì. Tsitsispas. Shapovalov. Il loro tennis mi piace perché giocano bene, e anche gli altri - ci sono tanti che giocano bene no? Anche Alcaraz, che è diciamo il giocatore in questo momento più emergente, è uno che gioca un tennis vario, fa una palla corta, viene a rete. Sono quelli che giocano sempre uguale che non mi piacciono».
Uhmm... Te la metto in un altro modo. E ci metto anche una cosa che hai detto tu in televisione, quando facevi il commentatore. A un certo punto te la prendesti con la Seles perché la Seles fu la prima che si serviva sistematicamente dal gridolino e dal gemito per darsi il tempo rimbalzo-colpo, e urlava qualcosa che sembrava “A-Chi!” E tu dicesti “ma cosa vuole questa. A chi? A te!”. Ricordi?
«Sì, certo. Secondo me quella era palla disturbata».
E allora ti rifaccio la domanda. Prima si stava zitti, si giocava vestiti di bianco, nessuno vociava, nessuno diceva “a-chi”. Ti piace il tennis di ora con queste urla da energumeni che quasi non si sente nemmeno la chiamata dell’arbitro?
«Mi fa schifo. Mi fa schifo, sul serio. Mi fa schifo».
Oh... Allora, potevi dirlo prima. Cioè uno salta la rete, dà una bella racchettata nel collo dell’avversario e gli dice “ Ora devi urlare!”. Dico bene?
«Adesso questo mi sembra un po’ esagerato, però potrebbe essere un’idea».
Vedi che smettono.
«No, ma quello non è colpa loro».
Glielo insegnano, lo so.
«Bravo. Si sono succedute tante metodologie di allenamento tra cui anche questa cazzata di “A-Chi!”, o comunque di gridare e di gemere a ogni singolo colpo che uno fa».
Bisognerebbe vietarlo.
«Il fatto è che lo fanno in tanti, per cui la Wta e l’Atp la concedono».
Così come bisognerebbe mettere la regola che ci si veste prevalentemente di bianco, come a Wimbledon, perché c’è una tradizione senza la quale il tennis non esisterebbe.
«Ma guarda, tornando ad Arthur Ashe, mi sa che è stato lui il primo che si è vestito col colore, lui aveva anche delle magliette a strisce. Ma era elegantissimo, era un bel ragazzo, era alto 1.90, magro, per cui gli stavano anche bene anche le strisce, no?»
Aveva una racchetta bellissima, anche. Sembrava fantascienza rispetto alle vostre.
«La Head».
panatta bertolucci barazzutti zugarelli
Già. La Head Competition.
«La tradizione del tennis è rispettata pure col colore, se c’è l’eleganza. Ricordo che feci una telecronaca in finale a Parigi quando vinse Wawrinka, e dissi che Wawrinka era vestito come un turista tedesco di Dresda a Milano Marittima. S’incazzarono, ma era la verità».
Anche le canotte: Nadal, prima. Adesso Zverev.
«La canotta non si può guardare. Va bene per il basket, va bene per la pallavolo, ma nel tennis la canotta non si può guardare».
O Agassi che giocava con i pantaloncini di jeans... Ma de che? Insomma, se il tennis è nato così ci sarà una ragione, o no?
«Cambia tutto, Sandro».
Ecco, infatti. Ti faccio l’ultima domanda, su come è cambiata la Coppa Davis. Ai ragazzi di ora, diglielo, che non lo sanno: cos’era la Coppa Davis per un giocatore come te, forte, che girava il mondo e vedeva anche girare dei bei quattrini, per i suoi tempi?
«Era la cosa più importante. Tutto si fermava se uno giocava la Coppa Davis. Io nel ‘76 non ho giocato il Master. Dimmi tu, se oggi vinci uno Slam e un 1000, più il resto, al Masters ci vai no?». Di corsa. «Be’, io non ci andai, per fare la Coppa Davis. Si andava ad ambientarsi in India se si doveva giocare in India, oppure in Sudafrica, e ci si stava un mese, pensa, un mese.
Immagina oggi dire a chiunque “Stai fermo un mese per giocare la Coppa Davis”. Questo ti risponde “Ma sei scemo?”. Però allora era così. Poi a un certo punto alcuni giocatori tipo Connors hanno cominciato a non giocare la Coppa Davis perché non la sentivano come la sentivamo noi. Uno che la coppa Davis l’ha sempre giocata è stato McEnroe. Mac alla Davis non ci rinunciava, ma era un fatto di cultura».
E quel torneino schizofrenico a squadre che giocano adesso, col secondo singolare che si disputa all’una di notte, e che chiamano Coppa Davis, c’entra qualcosa con quella che giocavi tu?
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«Nulla. Quella non è la Coppa Davis, dai».
Però si chiama così. Bisognerebbe chiamarla in un altro modo, almeno, perché così l’ammazzi due volte. Che poi, cosa c’era che non andava nella vera Coppa Davis? E negli incontri tre set su cinque? E nel quinto set senza tie-break? Cosa c’era di sbagliato nelle magliette bianche, me lo dici?
«La verità, Sandro, te l’ho già detta. Passa tutto. Passa tutto. “Un c’è nulla ‘a ffare”, come dite a Prato».
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