Giulio Di Feo per gazzetta.it
Nel giorno del quarantatreesimo anniversario della sua prima volta in panchina, Mircea Lucescu il regalo non lo riceve ma lo fa. Dopo essersi tratto in salvo dalla guerra in Ucraina con un viaggio interminabile, l’allenatore della Dinamo Kiev, 76 anni, si è messo subito in moto per facilitare la fuga dei calciatori stranieri dalla capitale aggredita dai russi.
Lo raggiungiamo al telefono nella sua Bucarest, è stanco ma non abbastanza: “Ora però bisogna fare qualcosa per i ragazzi ucraini. Non possono uscire dal Paese, hanno famiglie e figli piccoli...”. E ci racconta la sua storia: “Venivamo da un ritiro verso il campionato che stava per ricominciare, siamo stati in Spagna e ad Antalya con quasi tutte le squadre ucraine, una specie di mini campionato. Poi siamo tornati, giovedì sera abbiamo fatto allenamento in vista della partita di Coppa e poi è successo quello che non ci aspettavamo mai potesse succedere...”
Com’è arrivata la guerra a Kiev?
“A un certo punto mi sveglio di notte e il primo pensiero che mi viene è l’estate, ha presente quei temporali estivi pieni di lampi e tuoni fortissimi? E invece no, purtroppo no. Ci dicono che è cominciata la guerra, e che è arrivata alle porte della città”.
Kiev se lo aspettava?
“No, non se lo aspettava nessuno. Si pensava che ci sarebbe stata al massimo qualche schermaglia nel Donbass, nessuno credeva a un’invasione come quella che abbiamo visto”.
Cosa le dicevano le autorità?
“Che ovviamente non si gioca più, che bisognava aspettare. E io ho aspettato, per un giorno. Nel frattempo avevo la mia ambasciata che mi pressava per lasciare l’Ucraina. Così ho parlato con il mio presidente, ho tranquillizzato i calciatori, abbiamo fatto in modo che anche le loro famiglie stessero in sicurezza. Poi io e il mio staff ci siamo messi in moto”.
“Diciassette ore durissime, tra dogane e posti di blocco. Per uscire dalla città siamo andati avanti a sette all’ora, le strade erano intasate dalle auto di quelli che scappavano. Fuori da Kiev abbiamo iniziato a prendere strade secondarie, mentre sulla strada incontravamo i convogli dei soldati che andavano verso sud perché intanto erano iniziati i bombardamenti provenienti dal Mar Nero.
Così siamo arrivati alla frontiera con la Moldavia, dove c’erano code infinite. E lì ho visto scene brutte, di uomini che accompagnavano al confine donne e bambini, si assicuravano che passassero e poi tornavano indietro. Lì ti rendi davvero conto del dramma della guerra. Perché noi avevamo sentito solo quelli che io avevo scambiato per tuoni, quella gente no”.
Cos’ha fatto una volta arrivato a Bucarest?
“Ho parlato con Razvan Burleanu, il presidente della federcalcio romena, e ci siamo interessati per facilitare l’uscita degli altri calciatori stranieri, non solo quelli della Dinamo. Specialmente i sudamericani, che abbiamo fatto arrivare qui e poi ripartire. Ho seguito passo passo il loro tragitto, con Junior Moraes, l’attaccante dello Shakhtar, che ha fatto da leader del gruppo. Lo ringrazio per la forza che ha mostrato”.
Chi altri c’è da ringraziare?
“Ceferin e i presidenti delle federazioni di Ucraina, Moldavia e Romania. Io ero obbligato moralmente a essere vicino a quei ragazzi, loro no. Ma ora c’è da guardare avanti. Se la guerra prosegue spero che l’Uefa dia ai calciatori la possibilità di svincolarsi, o di andare almeno in prestito per finire la stagione. Parliamo di ragazzi giovani con famiglia, devono continuare a giocare perché il calcio è il loro mestiere. E ha un potere enorme...”
Quale potere?
“Senza calcio il mondo è più duro. Avete visto cos’è successo con la pandemia? Teatri, cinema e altre forme di intrattenimento erano fermi e il calcio no, teneva desto l’interesse della gente anche senza pubblico e tra mille difficoltà. E appena hanno riaperto gli stadi la gente è tornata subito. Capite qual è la sua forza? È un bene che va preservato”.
Per far sì che il calcio continui si parla anche dei paesi limitrofi disposti a ospitare il campionato ucraino. Ne sa qualcosa?
“Sì, è una proposta sul tavolo. La Romania è disposta, Polonia e Ungheria anche, so che Ceferin ci sta pensando, se si vuole non sarà una cosa difficile da organizzare”
Lei allena in Ucraina dal 2004, è un po’ la sua seconda patria, ha vissuto anche il precedente conflitto nel Donbass: come si sente ora quel popolo?
“Come quello di una terra di conquista, è la loro storia. Adesso la invadono i russi, prima nei secoli l’hanno fatto i polacchi, i mongoli, i tartari, i popoli germanici,... Non sono mai riusciti a formare uno stato forte e indipendente, e ora che l’hanno fatto arriva l’invasione. Proprio questo però ha contribuito a esserli estremamente orgogliosi del loro essere ucraini”.
Molti infatti non si aspettavano, in effetti, una resistenza del genere.
“Appunto: sono uno stato nuovo, entusiasta, che usa con fierezza la propria lingua, cosa che prima non accadeva. Si considerano la culla dell’Est Europa, dalla cultura alla religione, e non è un popolo che accetterà facilmente di farsi conquistare”.
Come immagina che finisca?
“Spero che si arrivi a un accordo politico, e che soprattutto ci si renda conto della prima necessità: non far morire altre persone. Ripeto: nessuno si aspettava una tragedia del genere, gli ucraini ascoltavano Putin e pensavano fossero schermaglie verbali, minacce. La storia ci racconterà sempre questa vicenda come quella di un Paese fratello che ne aggredisce un altro, è una ferita incredibile. Quando apriranno gli occhi di fronte al danno che stanno facendo, forse la smetteranno. Ora pensiamo alla pace, poi penseremo anche al calcio”.