Franco Ordine per il Giornale
Il primo Milan di Elliott ha già perso i pezzi. Nel giro di poche ore alle dimissioni annunciate di Leonardo si è aggiunta la separazione consensuale dal tecnico Rino Gattuso. Per qualche ora rimarrà sospeso anche il destino di Paolo Maldini cui è stato offerto di assumere la responsabilità diretta dell' area tecnica: l' ex capitano, poco entusiasta, vuole riflettere sulla missione e in particolare sull' autonomia del ruolo. Nel volgere di due giorni appena, la linea di comando allestita dall' azionista americano meno di un anno fa, tra squilli di tromba e speranze gigantesche, è saltata.
Leonardo si è congedato in largo anticipo rispetto alla nota di ieri pomeriggio. È pronto a tornare a Parigi, alla guida del Psg dove ha già lavorato in passato. Il brasiliano, in aperto conflitto con Gattuso dopo la lite post derby di ritorno, è uscito di scena quando ha capito che il suo mercato di gennaio (Paquetà e Piatek) era stato mal digerito dall' azionista per il peso economico delle due operazioni e che il prossimo, per i vincoli dell' FFp, sarebbe stato da lacrime e sangue.
Rino invece ha colto in contropiede l' ad Gazidis che, a dispetto delle tante bufale circolate in proposito, non aveva prenotato nessun altro allenatore tanto da ammettere nel comunicato di congedo di ieri sera che «è pronto a realizzare la selezione dei profili giusti» per la sostituzione.
Siamo tornati al casting tipo quello indetto dall' Inter di Suning dopo l' esonero di de Boer: non proprio un esempio incoraggiante. Ma è stata la modalità dell' addio a rendere Gattuso un gigante in questo maggio rossonero reso già malinconico dalla Champions persa per un punto e per una traversa malandrina. L' allenatore ha rinunciato a due anni di stipendio (5,4 milioni di euro netti) in cambio della liquidazione degli stipendi da garantire al suo staff con una motivazione di grande effetto. «Tra me e il Milan non potrà mai esserci una questione di soldi» la spiegazione fornita a collaboratori e amici.
La decisione di Gattuso non è di ieri e nemmeno di qualche giorno prima. La confidò dopo il tumultuoso scontro con Leonardo e Maldini avvenuto al culmine del derby perso 3 a 2. «Comunque finisca, io andrò via» promise e sembrava lo sfogo di quelle ore. Poi si è aggiunto il dissidio sul piano industriale del prossimo Milan e lo stress accumulato in diciotto mesi indimenticabili. «Io nel casino mi trovo alla grande» è stata la sua sintesi. Preceduta da una sequenza di piccole e interessanti confessioni. «Avrei dovuto fare prima del Bologna il ritiro punitivo, sono andato in tilt anch' io in quelle settimane» la prima riferita alla striscia di 5 punti in 7 partite. «Avrei dovuto convincere Calhanoglu a giocare centrale di centrocampo» la seconda, conseguenza del giudizio sul conto di Bakayoko che «ha rubato l' occhio ai tifosi» senza però aggiungere granché in fase di costruzione del gioco.
Gattuso è diventato migliore rispetto a quel 27 novembre del 2017 quando raccolse l' eredità di Montella. «Io credo molto nell' utilità della gavetta» la riflessione a voce alta prima di pesare i 68 punti appena collezionati («non sarà semplice fare meglio»).
Specie con quel mercato che gli hanno snocciolato: tre-quattro giocatori da 4-5 milioni oppure cessione di qualche big e il 50% del ricavato reinvestito. Adesso aspetterà magari qualche telefonata da Roma (l' arrivo di Gasperini dall' Atalanta non è garantito).
Il congedo di Gazidis ai due è stato diverso. A Leonardo ha dedicato espressioni di riconoscenza, a Rino un attestato di milanismo doc. «Ha lavorato senza sosta assumendosi sempre tutte le responsabilità, ponendo il club al di sopra di qualunque interesse» la chiosa dell' ad. Indispensabile per uno che gli ha fatto risparmiare 11 milioni. L' azionista non è rimasto a guardare. Ha smentito l' arrivo di Campos, ha dato tempo a Maldini pensando a un eventuale sostituto (deve condividere il piano) e ha cancellato dalla testa dei tifosi che il fondo possa speculare sulla pelle del Milan puntando alle plusvalenze.
«Il club deve diventare competitivo in modo sostenibile» la formula per ricacciare indietro il pessimismo cosmico che è già tracimato tra i tifosi. Sull' Europa league infine lo scenario più accreditato resta il seguente: via dalla coppa in cambio di un anno in più per sistemare i conti.
2. L'UOMO CONTA PIÙ DEI TROFEI. LA LEZIONE DI GATTUSO AL CALCIO
Marco Zucchetti per il Giornale
Forse non si dimette l'allenatore più bravo della storia milanista. Di sicuro se ne va l'unico in tutta la galassia rossonera a cui i tifosi oggi volevano davvero bene.
Chi ha detto addio a Rivera, Van Basten e Baresi, nel cuore non porta nessun giocatore di oggi. Giochi qui e sei bravo? Tifo e stima. Sei un campione e te ne vai? Arrivederci. Sono professionisti. E a forza di ripeterlo, cinicamente ci siamo quasi abituati. Ma con Ringhio è diverso: lui è l'unico caso di bandiera che sventola dalla panchina. Per questo mancherà. Per qualche sortilegio che nessun amministratore delegato o marketing manager potrà mai spiegare, c'è un calabrese cazzuto e tignoso che nonostante i «risultati deludenti» è entrato sotto pelle a tutti i tifosi, ancor più da allenatore che da giocatore. Lo conoscono da anni, sono cresciuti insieme.
Parla e soffre come loro, scuote i Bakayoko come farebbero loro, a fine partita non ha voce come loro. A tutti sembra di sentire le rispettive mogli rimproverarli perché «come si fa a ridursi così per il calcio?». Semplice, perché Gattuso adora il Diavolo come loro. Di più, è la sua anima. Il problema è che le anime a volte è giusto lasciarle partire, perché la sintonia si è dissolta come l'eco del triplice fischio.
È attorno a questo groppo viscerale di amore, riconoscenza, immedesimazione e critica tecnica che si avviluppano le sensazioni dei milanisti oggi. Perché parlare di Rino Gattuso è come sedersi sul lettino dello psicanalista. La parte razionale può contestarne i difetti. Poi però affiorano i ricordi eroici, il pressing al 120' in finale di Champions con la Juve, i traumi condivisi come Istanbul; la simpatia per le frasi sincere e mai banali in conferenza stampa, per le lezioni di vita nello spogliatoio, per i valori e l'umiltà, energia nucleare che spinge a dare tutto. Parlare di Gattuso oggi per i milanisti è fare un bilancio fra le aspettative inconsce di tifosi viziati dai successi recenti e il dna antico di una passione calcistica per niente snob, in grado di portare 80mila spettatori con la Cavese e di abbracciare con affetto perfino Abate, a cui in nome dell'impegno sono stati perdonati anche i piedi cubici.
Ecco, a Gattuso non c'è niente da perdonare. Sarebbe stato bello aprire un ciclo, vederlo costruire qualcosa. Ma ha perso la Coppa Italia, i derby, non è andato in Champions e in due anni di spettacolo se ne è visto pochino. Tutto vero, poi però la matematica dice che solo Juve e Napoli hanno fatto più punti di lui e la ragione suggerisce che tra ombre cinesi, fondi americani e bomber argentini in crisi d'identità, forse gli schemi sul campo non erano esattamente il problema principale del Milan di quest'anno. Specie se poi in campo i presunti campioni diventano giocatorini impauriti e non si prendono responsabilità.
Gattuso si è caricato le sue e pure quelle degli altri, da leader. E come i leader paga. Ma è stato il centro di gravità di un mondo a brandelli che cercava a tentoni una strada fra operazione nostalgia e gestione moderna, è stato la stella del Sud a cui tendere mentre spiravano bufere di fair play e bonacce di Bonucci. Non è un caso se con lui San Siro è tornato a riempirsi nonostante si giocasse in contropiede pure con il Frosinone, se è arrivato il miglior piazzamento da sei anni e se tanti oggi si sentono come se il loro migliore amico fosse partito per un posto lontano. Gattuso è stato un riferimento nel vuoto quando poteva andare tutto peggio.
Per questo l'emozione è così naturale e smisurata rispetto al bilancio sportivo: perché per fortuna anche nel calcio l'uomo (non l'ominicchio che chiede l'adeguamento di contratto a 18 anni, non il quaquaraquà che accampa solo scuse) a volte viene prima di tutto. La misura di quanto e che uomo sia Gennaro Gattuso non la si scopre oggi, ma - direbbe lui - «chi nasce quadrato non muore tondo»: rinunciare a 5 milioni di euro per il bene della sua società e però pretendere che ai suoi collaboratori sia pagato ogni centesimo è solo la naturale, momentanea conclusione di una storia d'amore sana e bella. Che unisce nella stima anche gli avversari.
Da domani i milanisti avranno tempo di sperare in un nuovo mago della tattica che col calcio champagne mieta trofei in uno stadio hi-tech senza la gloria di San Siro, così da rilanciare il brand dall'Asia a Timbuctu. Oggi lasciateli commuovere e salutare il loro Ringhio. Che in panchina non avrà vinto niente, ma ha conquistato qualcosa che non concorre ai bilanci ma è più unico e più prezioso: il rispetto e la gratitudine del suo popolo e di tutti i tifosi di cuore.
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