Pierluigi Panza per il Corriere della Sera
pompeo batoni ritratto di henry peirse
Il Grand Tour, al quale le Gallerie d’Italia dedicano una mostra, fu nella seconda metà del Settecento il rito iniziatico dei nobili, che viaggiavano accompagnati da architetti, disegnatori, eruditi, oltre alla servitù. Varcate le Alpi, il viaggio toccava sovente Verona, Venezia, scendeva lungo l’Adriatico per deviare verso Roma. Da qui si proseguiva per Napoli e i Campi Flegrei; alcuni anche per la Sicilia, una terra «levantina».
Molti turisti si appoggiavano agli ambasciatori, come il console Smith a Venezia o Hamilton a Napoli, per cercare una residenza in città; altri a banchieri, come Thomas Jenkins oppure venivano ospitati nelle sedi del loro Paese, come Palazzo Venezia a Roma. I più si autofinanziavano, ma sorsero anche società, la più celebre quella dei Dilettanti di Londra, che raccoglievano fondi per inviare soci in Italia.
ritratto di gruppo con il conte firmian
Visitare la mostra è come effettuare un soggiorno romano del Grand turista. Si osservano i monumenti, poi si passa da Pompeo Batoni o da Mengs per farsi ritrarre,
preferibilmente davanti a una rovina e con il proprio cane ai piedi, segno dell’affetto
che nutre verso il padrone, che a sua volta dimostra la capacità di farsi rispettare.
Quindi si va nella bottega dei vari Albacini, Pacetti, Cavaceppi o Piranesi per acquistare un vaso o un candelabro in stile adrianeo, di quelli messiinsieme con un frammento antico — magari scavato a Villa Adriana o a Monte Cavallo — e tutto il resto ricostruito a bottega, sia con marmo antico che appena estratto, ma anticato con ricette segrete.
Per giungere a Londra o Parigi, le «antichità» venivano inscatolate, imbarcate al Porto di Ripetta per Civitavecchia, da qui a Livorno verso la Senna o il Tamigi, oppure Stoccolma da Gustavo III, dove giunsero i marmi Piranesi svenduti dal figlio. Per l’espatrio serviva il nulla osta dell’Assessore alle antichità, che per un certo periodo fu Wincklemann (in vestaglia con interni di ermellino nel suntuoso ritratto di Anton von Maron); ma nemmeno lui si faceva scrupolo: la «Venere Jenkins» partì perché «simile» ad altre già in possesso del Vaticano.
Chi aveva meno soldi doveva accontentarsi di un bronzetto, una veduta alla Gaspar van Wittel o alla Panini e chi meno ancora di una stampa. Per la cena si poteva contare su qualche nobildonna, come la marchesa Margherita Sparapani Boccapaduli che, ritratta da Laurent Pécheux, mostra un cabinet di mirabilia, anche all’egiziana. Al ritorno in patria, schizzi e disegni diventavano quadri o stampe che illustravano le memorie di viaggio. Il fenomeno finì con le invasioni napoleoniche, che travolsero l’Ancien Régime.
L’esposizione, sotto il Patronato della Presidenza della Repubblica e in partnership
con il Museo Archeologico di Napoli e l’Ermitage, presenta 130 opere provenienti dalla collezione Intesa Sanpaolo, collezioni private e istituzioni culturali di tutto il mondo.
sala franceschini stefano lucchini foto di bacco
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