UN ARTISTA BIANCO NON PUÒ DENUNCIARE IL RAZZISMO? – LA TATE MODERN DI LONDRA DEDICA UNA PERSONALE AL PITTORE STATUNITENSE PHILIP GUSTON – RIELLO: “UNA MOSTRA RIMANDATA PER TRE ANNI PER LE PROTESTE DEI BENPENSANTI DELLA ‘WOKE CULTURE’ CHE ACCUSANO GUSTON DI ‘APPROPRIAZIONE INDEBITA’ PER AVER RAPPRESENTATO LA CONDIZIONE DI SEGREGAZIONE RAZZIALE DEGLI AFRO-AMERICANI. IN PARTICOLARE I FREQUENTI RIFERIMENTI A RIDICOLI E MALVAGI OMINI INCAPPUCCIATI (OVVERO: KU-KLUX-KLAN) ERANO CONSIDERATI NEL 2020 INACCETTABILI DA PARTE DI UN ARTISTA DI NON-DI-COLORE...”

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Antonio Riello per Dagospia

 

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Philip Guston (1913-1980) è un pittore che è ben presente nelle collezioni americane importanti - sia private che museali - ma che in Europa non ha avuto un significativo riconoscimento pubblico. La Tate Modern di Londra gli dedica finalmente una importante retrospettiva (circa 100 opere). Il “finalmente” è anche perché questa è stata una mostra già programmata per il 2020 e poi posticipata (e quasi cancellata in realtà) in seguito a una ridda di polemiche.

 

Qualche benpensante della “Woke Culture” (nel sottocaso: “Black Lives Matter”) aveva iniziato a dire e a scrivere che questo artista (bianco) avrebbe fatto una sorta di “appropriazione indebita artistica” illustrando vicende che richiamavano - sebbene in modo molto rigorosamente critico - la condizione di segregazione razziale degli afro-americani.

 

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In particolare i frequenti riferimenti che Guston fa a ridicoli e malvagi omini incappucciati (ovvero: Ku-Klux-Klan) erano considerati (nel 2020) inaccettabili da parte di un artista di non-di-colore, malgrado comunque risalissero a circa sessant’anni fa.

 

Veniva accusato in pratica di avere sfruttato una tematica che, in termini identitari, non gli competeva, dato che appunto non era afro-americano. Alla fine, tra ritardi e acrobatici distinguo critici, la mostra si è fatta (anche perché nel frattempo il movimento del “Black Lives Matter, coinvolto in scandali vari e sovrastato mediaticamente da nuove ed imprevedibili vicende, ha perso parte della sua forza).

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Guston nasce da una famiglia di immigrati ebrei (il suo nome all’anagrafe è Goldstein) ed è fin da ragazzino molto sensibile alle problematiche sociali, al razzismo e al senso di giustizia. E’ cioè un artista politicamente impegnato. Nel 1934 (era l’epoca dei grandi murales messicani di Siqueiros, Rivera e Orozco) con Reuben Kadish e Jules Langsner va in Messico e realizza con loro un grande murale “The struggle against terrorism” (da intendersi come il terrorismo di stato praticato da Nazisti e Fascisti).

 

Questa fase iniziale della ricerca di Guston, forse non così conosciuta, è davvero molto ben documentata alla Tate. Guston fa qualche viaggio in Italia (soprattutto nel Sud) e poi si stabilisce a New York. Lì partecipa attivamente alle vicende dell’Espressionismo Astratto e diventa amico di Pollock, de Kooning, Rothko. Anche questa fase è ben illustrata dalla mostra dove è visibile parte della sua produzione astratta.

 

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Intorno al 1960 trova la sua cifra personale – quella per cui il suo lavoro è immediatamente riconoscibile - cioè una figurazione urbana e ruspante, influenzata dai fumetti e dalla cultura popolare americana. E’ un cantastorie visuale sui generis che pratica un cocktail di pittura raffinata e immagini volutamente ingenue e iconiche (corroborate, quando serve, da una punta di controllata trivialità).

 

Scarpe, gambe pelose e tentacolari, automobili, ragni e ragnatele, sigarette, ometti incappucciati sono il lessico (molto americano e con accenti tragi-comici) dei suoi dipinti. Verso la metà degli anni Settanta ritorna a visitare l’Italia, Roma in questo caso (ci sono anche alcune opere sulle rovine archeologiche). Poi, disincantato (e forse deluso) dal mondo dell’Arte, entra in una fase di chiusura ed isolamento, si ritira dalle scene andando a vivere in campagna.

 

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Collabora strettamente, in questo periodo, con la moglie Musa McKim (1908-1992) poetessa e scrittrice. Sono anni in cui comunque produce molti lavori di carattere privato che raccontano da vicino le sue fobie e i suoi pensieri più intimi. Philip Guston, in prospettiva, occupa una nicchia tutta sua nel panorama dell’Arte americana, in equilibrio (instabile) tra linguaggi molto lontani e diversi tra loro. Laura Cumming sull’Observer definisce la mostra (curata da Michael Wellen e Michael Raymond) come: “mordace, magnifica e imperdibile”.

 

Alla Turbine Hall della Tate Modern è possibile ammirare l’enorme installazione di El Anatsui: “Behind the Red Moon”. L’artista è nato in Ghana nel 1944, vive attualmente in Nigeria. E’ noto universalmente per opere di grandi dimensioni abilmente realizzate con prodotti di scarto: lattine vuote, tappi di bottiglia, resti di confezioni di plastica che l’artista combina assieme realizzando una specie di tessuto-rete flessibile.

 

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L’ingegnosità africana di recuperare quello che gli europei gettano via assume una dimensione ovviamente importante in tempi di sostenibilità spinta e di latente autarchia. Ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2015 e fu uno degli artisti più ammirati a quella del 2019 dove esponeva nel padiglione del Ghana.

 

Negli spazi davvero immensi della Turbine Hall non è per niente facile operare per un artista. Anche la precedente opera della pur bravissima Cecilia Vicuña, per quanto brillante ed interessante, non riusciva ad imporsi adeguatamente. Invece El Anatsui sembra essere riuscito nella sfida. I suoi grandi arazzi non hanno di solito una forma precisa e si adattano (spesso modificandole) alle strutture esistenti. Qui sono riusciti a dominare sul serio (anche per quanto riguarda l’altezza) la grande pancia vuota della Tate.

 

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“Behind the Red Moon” (una simbolica esplorazione artistica del rapporto Africa-Mondo) è divisa in 3 parti.

1. Una ampia vela color bianco avorio sospesa (“The World”). Il pensiero va automaticamente ai velieri in legno delle grandi esplorazioni oceaniche, ma il corollario inevitabile e’ la tratta degli schiavi e il dominio coloniale (gli istituzioni inglesi ormai sembra godano masochisticamente nel far fare al proprio paese la parte del “cattivo” della Storia moderna).

 

2. Una altra imponente vela, di colore arancio-rosso, funziona come un imponente sipario (“The Red Moon”). La separazione, il razzismo, la nostalgia, la memoria, la differenza. Tra le pieghe dei vari materiali di risulta impiegati sembrano fluttuare figure umane. Fantasmi probabilmente…

 

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3. “The Wall” (di colore piu’ scuro e con elaborati motivi) occupa fastosamente la parte finale della sala e scende fin sul pavimento suggerendo una serie di forme che richiamano simbolicamente le onde del mare. Il materiale usato luccica e sembra cambiare colore mano a mano che ci si avvicina. Qui le persone possono avvicinarsi fisicamente all’opera e, in qualche modo, finiscono per interagire con essa. Questo muro-cascata-mare-isola di rifiuti di plastica e metallo intrecciati si riferisce - poeticamente - alle attuali migrazioni che dall’Africa cercano di raggiungere l’Europa.

 

Una installazione spettacolare, profonda e potente. Speriamo di vedere il lavoro di El Anatsui presto in qualche museo italiano.

 

 

PHILIP GUSTON

Fino al 25 Febbraio 2024

 

EL ANATSUI: “Behind the Red Moon”

Fino al 14 Aprile 2024

Tate Modern

Bankside, Londra SE1 9TG

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