Marco Vallora per “la Stampa”
C'è un aneddoto, che spiega molto, del carattere ispido e scontroso di Burri, artista isolato, restio ad ogni ipotesi di legame o di movimento. Arrivano un giorno a trovarlo in studio, due giovani americani, freschi, abbronzati, disinvolti, innamorati tra loro e dell' Italia, curiosi di conoscere quest' artista appartato, di cui si parla già molto.
Loro non sono nessuno ancora, non hanno un «nome», eppure si chiamano Cy Twombly e Bob Rauschenberg, che viene dall' esperienza multimediale del Black Mountains, mentre la Pop Art è ancora da venire. Si guardano intorno, chiacchierano, scoprono le dirompenti novità tecniche dell' italiano, bruciature, saldature, lacerti di sacchi, e se ne vanno. Tornano in America, e Rauschenberg, riconoscente, gli spedisce in regalo una sua opera-gioco, uno scatolino con dentro una mosca morta.
Burri s' infuria, la vive come una provocazione scortese, e non perdonerà mai quella sguaiata Pop Art, che avrà presto un successo travolgente e che copre come industrialmente la sua sperimentazione, convinto d' esser stato banalmente copiato, nei suoi sacchi e nelle sue suture.
Oggi, nel tempo del suo anniversario, arriva, in fondo, la sua grande rivincita. Le porte regie della scala tortile del Guggenheim di New York, disegnato da Wright, si aprono ai suoi profetici sacchi, ai suoi cretti, ai suoi cellotex. «Sì, è giunto, in America, il momento del suo riscatto, forse è vero, Burri è stato più amato in Europa, in Francia, in Germania, dove ha già avuto mostre importanti», spiega Bruno Corà, responsabile della Fondazione ed anima di tutte queste molteplici iniziative, per il centenario della nascita. «Però aveva dei contatti molto forti, con quel paese.
Non soltanto nel periodo della guerra, è in campo di concentramento che decide di abbandonare la professione di medico e di diventare pittore. Ma poi aveva legami con gallerie importanti, era amico di Calder e di De Koonig, e infine sposa un' americana, la coreografa Mimsa Craig, con cui vive spesso a Los Angeles». Però, rispetto ad un Afro o persino a Scialoja, la sua influenza americana parrebbe storicamente meno incisiva.
Il Grande Cretto di Alberto Burri Gibellina
«È vero, apparentemente, però la fondazione Burri è stata molto riconoscente alle dichiarazioni di Richard Amstrong, che ha ammesso coraggiosamente che Burri ha comunque rappresentato come una svolta decisiva nel dopoguerra artistico internazionale, e un rinnovamento rilevante, che tocca anche l' America, magari sotterraneo, ma che oggi si può verificare in questa mostra di risarcimento, con il prestito eccezionale di capolavori che provengono anche da Palazzo Albizzini».
Altri sono rimasti in Italia e dialogano con dei maestri che gli erano cari, come Piero della Francesca o Signorelli. «Sì, soprattutto quando era giovane, Burri ha molto apprezzato questi artisti sommi, che viaggiavano tra l' Umbria e la Toscana, come Signorelli, che passò di qui, a Città di Castello, per andare ad Orvieto, ad affrescare il Duomo».
E nei pressi della città natale di Burri, in una piccola cappellina isolata, vicino alla casa collinare e segreta del pittore, San Crescentino, lasciò sulle pareti due affreschi toccanti, di delicata devozione popolare. «Quando vinse il prestigioso premio Feltrinelli per la grafica, volle convertire il consistente compenso al restauro di questo sperduto luogo romito».
Così, vedendolo a diretto contatto con questi maestri antichi, si comprende meglio la forza costruttiva ed in fondo prospettica e classica, della sua pittura: dirompente ma controllata, sorvegliata, architettonica. «Sì, assai evidente, quando i suoi Rossi o i Neri entrano in dialogo intimo, con un caposaldo come la Resurrezione di Piero».
ALBERTO BURRI - IL CRETTO DI GIBELLINA
Burri non amava però nemmeno tanto i raffronti critici con i suoi illustri antenati, detestava su di sé quello che i francesi chiamano il «parler- peinture», il «far parlare la pittura», proprio come Balthus ed in parte anche Morandi. Meglio lasciar parlare i suoi colori, le ferite silenti dei suoi sacchi suturati, e guai ricordargli che era stato chirurgo. Una furia, come quando l' amico Brandi scrisse che i suoi sacchi ricordavano il sajo usurato di San Francesco.
«Anche questo è incontestabile, però c' è una testimonianza importante, a proposito, del suo medico curante ed amico Tito Fortuni, che racconta una visita piuttosto tarda alla Porziuncola, e della sua emozione, però è vero che i sacchi li aveva fatti molti anni prima, senza un' influenza diretta. Non voleva che si trovassero delle radici critiche immaginate».
E come avrebbe reagito alla mostra d' omaggio e all' imponente raduno di artisti e critici e direttori di musei, schierati insieme, nel suo nome, per un polifonico ma non babelico incontro di opinioni e di poetiche contrapposte, tenuto sotto il titolo di «Rendez vous», in omaggio al bel ritratto collettivo di Max Ernst? «Male, certamente, ma non bisogna dar troppo conto alle idiosincrasie degli artisti.
Lui in fondo era contrario al troppo parlare, però era anche preoccupato del proprio destino. "Che sarà della mia opera?", s' interrogava spesso». Dunque sarebbe stato riconoscente, per la ricostruzione del Teatro Continuo al Parco Sempione di Milano («un abbattimento, che lo fece molto soffrire»), per la bella mostra palermitana sui cretti, a Palazzo Riso, e per il restauro del Grande Cretto di Gibellina, «che in realtà rimase incompiuto nell' '88.
Oggi bisogna soprattutto vigilare per un degno riavvicinamento cromatico, tra il frammento esistente e quello reintegrato». Ma certamente sarebbe rimasto grato del voluminoso lavoro del nuovo Catalogo Generale, a cura della Fondazione, or ora uscito.