Elvira Serra per il “Corriere della Sera” - Estratti
È stata sua moglie Marina a conquistarla. Con un fiore, giusto?
«Sì, un garofano: un fiore civile, come dice lei».
Era una sua studentessa.
«Vero. Insegnavo a Parma, chiamato da Arturo Quintavalle. Entro nell’aula e vedo arrivare una bellissima ragazza con un fiore in mano. Stupito la guardo, lei si avvicina e me lo dà. Io sono quasi svenuto. Ero sposato. Dopo due anni, quando avevo sistemato la mia situazione privata, ci siamo messi insieme».
Non è sbagliato cominciare da qui l’intervista a Nino Migliori, il fotografo di quel Tuffatore del 1951, un capolavoro di perfezione con la sua linea orizzontale come sospesa da fili invisibili, che ha fatto il giro del mondo solo molto tempo dopo, e nonostante la ritrosia dell’autore.
Marina Truant è la donna che lo tiene per mano da 44 anni, invisibile, eppure indispensabile, nei piccoli gesti di cura che esprimono amore, come quando gli solleva il bavero ne La festa che rovescia il mondo, il docufilm girato da Elisabetta Sgarbi al Carnevale di Viareggio, successivo al Viaggio intorno alla mia stanza , interamente dedicato alla vita dell’artista.
Lui bacia la mano di Marina mentre ci concediamo tutti insieme una «spritza», pizza al taglio con lo Spritz, alla periferia di Bologna. Poi, ci spostiamo nella sede della sua Fondazione, poco distante.
Dov’è oggi il Tuffatore?
«La prima stampa, 30 centimetri per 40, è nel Museo di Fine Arts di Boston. Qui in studio c’è un vintage, la prova del taglio. Non è mai stata ritoccata, non ho il culto della foto perfetta. Quello scatto è solo un gran colpo di... fortuna!».
Le spiace che la sua notorietà nel mondo sia legata soprattutto al Tuffatore?
«Non mi dispiace, ma non lo ritengo giusto. Ho fatto tante altre cose».
Così tante che Elisabetta Sgarbi le ha dedicato due film, per riuscire a raccontarle tutte. Che effetto le ha fatto?
«A Elisabetta voglio bene, mi sembra così simile a me nel desiderio di sperimentare...
Con lei è come guardarmi allo specchio: pure lei va contro le regole, pure lei ha sempre un progetto in testa».
(...)
Ma non tutti fotografano con un fiammifero acceso.
«Il fiammifero ti permette di mettere in risalto la parte che vuoi. Una foto non è mai la rappresentazione della realtà, è la sua interpretazione. Se una persona mi è simpatica o antipatica lo esprimo nello scatto».
Mi dica subito una persona antipatica che ha fotografato, così vado a cercarla!
«Il mio autoritratto».
Lei è nato nel 1926. Un ricordo della guerra?
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«Ero un ragazzo di 15-16 anni che aveva paura dei bombardamenti e dei nazisti. Stavo sempre nascosto. Una volta, ero nella casa di un contadino che aveva un podere piccolissimo e mi ero rifugiato nella buca dove venivano conservate le cose da mangiare. La buca era coperta da un sasso e sentivo i tedeschi camminarmi sopra, con il terrore di farmi scoprire con uno starnuto, perché ai tempi soffriva e soffro ancora di asma».
(...)
È ricco?
«Di povertà».
Non ci credo.
«Non ho mai cercato di sfruttare la fotografia, ne ho regalate migliaia. I workshop li faccio gratis. La fotografia è come la parola: arricchirsi con la filosofia mi è fortemente antipatico».
L’agenzia Magnum le propose una collaborazione, ma lei rifiutò.
«Non volevo perdere la mia libertà. L’unica dipendenza che ho è da mia moglie».
A settembre compirà 98 anni. Le fa impressione?
«Vorrei arrivare a 110! Magari per i 100 mi invento qualcosa: cento foto, cento baci...».
Baci? Ma è matto?
«Ma no, sono per Marina! Sa, la notte non dormo, penso sempre che sia l’ultima. Allora mi alzo, apro il frigo e mangio: sono molto goloso. Poi verso il mattino mi addormento un’ora e quando mi risveglio scopro con gioia che non è stata l’ultima».
Negli autoritratti dal futuro ha utilizzato un teschio vero. Come se l’è procurato?
«Non ricordo...».
Figuriamoci... Oggi cosa le piace fotografare di più?
«Le persone, gli stati d’animo. Questo non è cambiato dai tempi nei quali ritraevo la gente dell’Emilia, la gente del Nord, la gente del Sud».
E i frati volanti!
«Ho sempre amato documentare gli esseri umani».
Però vinse il suo primo premio, una macchina fotografica professionale, ritraendo la statua di San Domenico.
«Era il 1948. Da allora non ho smesso di sperimentare».
È entrata nella leggenda la sua nottata a casa di Peggy Guggenheim a Venezia con Emilio Vedova e Tancredi Parmeggiani per ammirare un Pollock.
«Eravamo ubriachi. Lei lo aveva scartato davanti a noi. Lo guardavamo, andavamo a bere, tornavamo a guardarlo. Mi emozionava il fatto fisico di avere così vicino a me il quadro di Pollock: potevo toccarlo, era vero».
(...)
Marina l’ha sposata nel 2001. Perché non prima?
«Era come se fossimo già sposati. Lo abbiamo fatto a Cavezzo, eravamo in nove».
Quante macchine fotografiche ha?
«Tante, ma ne uso solo due digitali. Non sono un purista, altrimenti saremmo dovuti rimanere al dagherrotipo».
Sente di aver avuto il giusto riconoscimento dalla sua città, Bologna?
«Non me lo sono mai chiesto, non guardo mai quello che fanno gli altri. Però mi hanno dato il Nettuno d’oro, che è una cosa bella. E una volta, grazie a Fabio Roversi Monaco, mi hanno concesso l’intero Palazzo Fava per una mostra di tutti i miei lavori».
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