Antonio Riello per Dagospia
A Century of the Artist’s Studio è un progetto curato dalla Direttrice della Whitechapel Gallery, Iwona Blazwick, assieme a Dawn Ades, Richard Dyer, Hammad Nasar e con la collaborazione di Ines Costa e Candy Stobbs. È il frutto di una impegnativa ricerca durata circa tre anni.
L'assunto è piuttosto semplice, lo studio dell'artista come oggetto di indagine. In uno slogan di poche parole: "mostrami dove lavori e ti dirò chi sei". Una attenta carrellata su come si è evoluto l'atelier, dal pennello al computer. E una prospettiva, si potrebbe oggi dire, "ambientale" della creatività artistica.
studio paul mccarthy whitechapel
Infatti le idiosincrasie e le ossessioni di cui l'artista si nutre (e che traspaiono, più o meno con evidenza, dalle sue opere) diventano più facilmente comprensibili esplorando il posto dove crea.
C'è chi (David Hockney), con ordinatissima pignoleria, ha lo studio organizzato come una efficiente sala operatoria svizzera. Chi (Darren Almond) invece lo tiene lucido, intonso e splendente come una vetrina di un negozio di Hermes.
E chi (Francis Bacon, che quest'anno a Londra sta diventando davvero ubiquo) lavora in un marasma pressoché totale, in una sporcizia confusionaria che al giorno d'oggi meriterebbe probabilmente la visita dei servizi sociali.
Non mancano in questi ultimi tempi, soprattutto tra i giovani, anche quelli che tranquillamente lavorano da casa con un semplice computer portatile.
Di particolare interesse il dinamico nomadismo urbano degli studi. Gli artisti si spostano in genere seguendo l'evoluzione del mercato immobiliare: si concentrano in zone piuttosto economiche e in stato di abbandono per poi migrare in seguito in altre, quando la "gentrificazione" ha fatto nel frattempo salire i prezzi. Sono insomma un significativo indice del cambiamento dei valori nelle aree cittadine.
Sono esaminati un centinaio di autori (forse si farebbe prima a dire chi non c'è...) nell'arco temporale di un secolo. I nomi importanti della Storia: Egon Schiele, Henri Matisse, Pablo Picasso, Marcel Duchamp, Alberto Giacometti, Costantin Brancusi, Henry Moore, Helen Frankenthaler, Jean Tinguely, Cy Twombly, Andy Wahrol (la mitica Silver Factory!).
La crème de la crème della contemporaneità: Tracey Emin, Cindy Sherman, Bruce Nauman, William Kentridge, Paul McCarthy, Wolfgang Tillmans, Miroslaw Balka, Lisa Brice. E anche tanti nomi meno conosciuti, tipo Felicia Abban o Vivan Sundaram.
All'entrata si inizia con una impressionante e claustrofobica installazione/gabbia, Cell IX (1999), di Louise Bourgeois, nota per avere avuto, nel Greenwich Village di New York uno degli studi più caotici di tutta la Storia dell'Arte.
Notevoli i filmati che mostrano i luoghi di lavoro di Yinka Shonibare, Michael Armitage e German Noubi. L'inglese Paul Winstanley usa come set gli spazi vuoti degli studenti delle scuole, durante le loro vacanze estive. Sempre magico e sorprendente il video Der Lauf der Dinge (1987) del duo zurighese Peter Fischli & David Weiss girato proprio nel loro laboratorio.
Un potente segno dei tempi è la vicenda del Mansudae Art Studio situato nella Korea del Nord e definito "il più grande studio d'Arte del Mondo" (in termini di metratura...) dove centinaia di "artisti-operai" realizzano statue colossali e le epifanie della propaganda di regime.
Commovente infine la storia del fotografo Josef Sudek il cui laboratorio fu un sicuro nascondiglio durante l'occupazione nazista di Praga. L'americano Kerry James Marshall va la sodo della faccenda: fa divenire il suo stesso workshop una vera e propria opera d'arte.
kerry james marshall whitechapel
La mostra è idealmente divisa in due sezioni. lo studio come luogo pubblico, quindi pensato come una specie di show-room. E lo studio considerato all'opposto come spazio privato, tana, rifugio o anche prigione.
In entrambe le situazioni però la messa in scena, che dovrebbe abbondare di documentazione e ricostruzioni, sembra essere qui e là un po' latitante. O almeno non sempre all'altezza delle ambizioni dichiarate.
In parecchi casi ci sono semplicemente dei lavori esposti su una parete: delle micro-personali. Poco o nulla si intravede, in pratica, del contesto nei quali sono stati prodotti. Questo è particolarmente vero per le figure più giovani come Inji Efflatoum e Rotimi Fani-Kayode (che fa peraltro delle bellissime opere fotografiche di carattere omo-erotico).
Magari concentrare l'attenzione in modo più approfondito e verticale su meno artisti avrebbe potuto ovviare a questo inconveniente.
Probabilmente anche la questa venerata istituzione londinese non riesce a sottrarsi al verbo stringente dell'inclusione etnico-geografica obbligatoria. È come se esistesse un manuale (non scritto forse, ma di fatto dirimente) per fare la mostra "giusta". Un libretto di istruzioni dove viene elencato quanti artisti utilizzare per continente, quanti per etnia e quanti per gender.
A Century of the Artist’s Studio rimane comunque, a dispetto di ciò, un viaggio intelligente ed unico. Alla fine, proprio come succede con il teatro, le prove e il "dietro-sipario" sono spesso le esperienze più preziose e meno scontate per uno spettatore.
Va segnalata per il visitatore anche l'eccitante possibilità di diventare artista, almeno per qualche ora. Infatti due sale della Whitechapel ospitano "The Living Studio" dove, con diversi materiali donati da artisti, si può dare sfogo alle proprie fantasie creative.