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Reportage di Camilla Alibrandi per Dagospia
Giuseppe Fantasia per ElleDecor
Con David Weiss, l’amico e socio speciale scomparso troppo presto, Peter Fischli, anche lui zurighese, formò un duo amatissimo e stimato nel mondo dell’arte e della cultura internazionale a tal punto da esser considerati gli eredi spirituali di uno spirito dadaista alla Cabaret Voltaire.
Dal 1979 Weiss e Fischli sono riusciti a trasformare, ad analizzare e a rivisitare il senso delle cose con uno stile e un gusto ironico quanto irriverente, creando opere che sono vere e proprie rivelazioni in grado di trasformare un reale in cui ogni dettaglio nasconde qualcosa di magico.
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Da solo e senza mai perdersi d’animo, Fischli continua a credere che la quotidianità vada ribaltata e che sia possibile inventare nuovi universi, delle possibili fughe dalla realtà. L’importante, però, è capire come.
Ci è riuscito in maniera egregia curando “Stop Painting”, la mostra con cui la Fondazione Prada di Venezia riapre – in occasione della Biennale d’Architettura di Venezia - gli elegantissimi portoni scuri dello storico palazzo Ca’ Corner della Regina affacciato sul Canal Grande.
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Il suo è un progetto che esplora tutta una serie di momenti di rottura nella storia della pittura degli ultimi 150 anni, in relazione alla comparsa di nuovi fattori sociali e valori culturali, dalla diffusione della fotografia all’invenzione del ready-made e del collage, dalla messa in discussione dell’idea di autorialità alla critica della pittura come bene di consumo fino alla crisi della critica nella cosiddetta società tardocapitalista.
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In quello che lui stesso ha definito “un caleidoscopio di gesti ripudiati”, sono in realtà gli oggetti - poco importa se quadri, sculture, stoffe, segnali e quant’altro - a farla da padroni e che, nell’insieme, ci proiettano in un presente che guarda al futuro in maniera dubbiosa e speranzosa, chiedendosi se l’attuale rivoluzione digitale possa essere l’origine di una nuova crisi della pittura o, al contrario, possa contribuire al suo rinnovamento.
"Stop painting" di Fischli - Anna Federici
Il percorso espositivo inizia al piano terra con un modello in scala ridotta dell’intero progetto, “una scultura di una mostra di pittura”, parole di Fischli (autore anche del prezioso catalogo pubblicato proprio dalla Fondazione), un’opera site-specific con cui illustra le 10 sezioni del progetto che riunisce oltre 110 opere realizzate da più di 80 artisti, da Emilio Vedova a Piero Manzoni, da Andy Warhol a Marcel Duchamp, da Pino Pascali a John Baldessari, Roy Lichtenstein a Mark Kebber, giusto per citarne qualcuno.
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“Dagli anni Ottanta l’idea di avanguardia divenne obsoleta e si dissolse – ci ha spiegato il curatore – e di conseguenza fu proclamata ancora una volta la fine di una posizione critica nella pittura”. Non è un caso, quindi, che abbia concepito questa mostra come una pluralità di narrazioni raccontate da lui stesso in prima persona, con un tono soggettivo e che l’intero allestimento - un sistema di pareti temporanee che attraversano e sezionano gli spazi espositivi, passando attraverso le soglie che collegano le diverse stanze - sia studiato per far risaltare le contraddizioni.
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A dominare l’intera esposizione è Hudel, l’enorme tappeto di stoffe cucite a mano di Jean-Frédéric Schnyder (in prestito dal Kunstmuseum Basel), che percorre longitudinalmente quasi tutto il piano nobile del palazzo. Stoffe colorate con cui l’artista si è divertito a “giocare” in questo mondo dell’arte che per lui è anche una barchetta in mezzo al mare, la stessa che c’è nel salotto del cartoon The Simpson’s.
Fa parte della sezione intitolata “Delirium of Negation” insieme a opere di Daniel Buren, Carol Rama e Kurt Schwittersruota che riflettono se davvero, come disse l'artista e critico John Kelsey, “la fine della pittura non può che essere una ripetizione”.
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Con “Mensch Maschine”, Fischli ha invece indagato il superamento della figura dell’artista - in quanto produttore della propria opera - mettendo in discussione l’idea di soggettività come forza ispiratrice dell’attività creativa. Ecco, quindi, i lavori di Andrea Fraser, Pinot Galizio, Alain Jacquet, Piero Manzoni e Niki de Saint Phalle (sono in tanti ad aspettare la sua antologica a Capalbio, la prossima estate), “che incorporano nuovi dispositivi tecnologici e invenzioni, illustrano il possibile e scioccante annullamento della distinzione tra opera d’arte e oggetto di uso quotidiano”.
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Carla Accardi, Walter De Maria, David Hammons, Klara Líden, Martin Kippenberger e Albert Oehlen sono i protagonisti, invece, di “Niente da vedere niente da nascondere”, una sezione in cui celano, coprono o distruggono l’immagine rendendo impossibile per lo spettatore la trasformazione della sua superficie in un feticcio. Diverso, ad esempio, John Baldessarri che in “What is painting” indaga la relazione tra immagini e testo assieme a Gene Beery e Pino Pascali.
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La pittura, quindi, sembra sul punto di scomparire, “è morta” – ha osato dire qualcuno (Paul Delaroche) – si è vista costretta a rinunciare alla sua funzione mimetica per sopravvivere, avrà pure perso il suo valore simbolico, la sua facile conservazione e avrà anche subito - a sua volta - la crisi della critica, ma siamo poi così sicuri che sia finita? Fischli fa nascere in noi questi e molti altri interrogativi ricordandoci che è ancora lì, in mille e più forme e modi: basta solo accorgersene e saperne cogliere il significato.
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È Die hard, questo è sicuro, è dura a morire, come recita il titolo di un’altra sezione di questa mostra - aperta fino al 21 novembre prossimo - con opere che esprimono una nostalgia empatica per il mezzo pittorico e l’impossibilità anche per artisti d’avanguardia come Marcel Broodthaers, Asger Jorn e Kurt Schwitters di sfuggire alla segreta forza di attrazione della pittura figurativa.
Dire “no”, e anche più volte, come insegnano Boris Lurie, Gustave Metzger e la sua arte autodistruttiva, Henry Flynte e i suoi segni violenti contro i musei d'arte o Lucio Fontana con i suoi tagli su tela (splendida la tela “Io sono un santo” con la doppia e opposta scritta) che sono vere e proprie aperture verso un altrove necessario, oggi più che mai.
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