Eugenio Occorsio per la Repubblica
Mentre tutti sono concentrati sulle conseguenze per la finanza della Brexit, che magari non saranno alla fine così catastrofiche perché Londra conserverà sempre una sua expertise acquisita, emerge con clamore la crisi cui va incontro un altro comparto fondamentale per l’economia britannica, l’industria farmaceutica.
Il Regno Unito è un hub di importanza fondamentale nel comparto: intanto vi hanno sede due dei maggiori sette gruppi mondiali, Glaxo SmithKline (Gsk) e AstraZeneca, due corazzate da 24 miliardi di sterline di fatturato e 97mila dipendenti la prima, 22 miliardi e 50mila addetti la seconda. Oltre a gruppi minori ma potenti come Btg oppure Shire e Tiziana Life Sciences nel biotech. Poi Londra ospita l’European Medicines Agency, l’authority dell’Unione che certifica, sperimenta e autorizza i farmaci con validità in tutto il continente (e in virtù di un accordo con la Food and Drug Administration anche in America).
Infine, la Gran Bretagna ha una grandissima tradizione di studio, di ricerca e di analisi cliniche grazie al livello dei suoi ospedali e delle sue università. «E al loro inserimento in altrettanti network internazionali del massimo prestigio», come ricorda Brunello Rosa, capo economista del think-tank MacroGeo di Londra. Il pericolo insomma si allarga: le grandi multinazionali americane e svizzere stanno ripensando sull’opportunità di continuare a puntare e stabilire basi a Londra.
IL 10% DEL PIL
Nel settore lavorano, fra diretti e indiretti, almeno 700mila persone (di cui il 15% proveniente dagli altri Paesi europei) per un valore complessivo della produzione di almeno 200 miliardi, il 10% del Pil del Regno. Secondo un rapporto della confindustria britannica, l’anno scorso gli investimenti in ricerca e sviluppo nel solo settore farmaceutico hanno superato i 5 miliardi di sterline. Tutti gli elementi, causa uno dell’altro, saranno sconvolti.
E lo saranno in misura direttamente proporzionale al grado di “durezza” che il governo di Theresa May (e le controparti europee) intenderanno instillare nella Brexit, che rebus sic stantibus rischia di essere più “hard” del previsto, malgrado i continui inviti alla moderazione che arrivano all’esecutivo da entrambi i rami del parlamento di Westminster (la settimana scorsa perfino la conservatrice Camera dei Lord ha invitato la May a non fare passi avventati e soprattutto a non farli senza averla ascoltata, e questa settimana analogo invito verrà dal Comuni).
La premier l’ha detto chiaramente: Londra vuole uscire anche da qualsiasi forma di mercato comune. E la Germania l’ha presa alla lettera, rifiutando ipotesi di compromesso parziale (“se siete fuori siete fuori”). Il rischio è che il governo imponga (o subisca) una rottura così radicale con l’Europa per cui la Gran Bretagna non rientrerà né nella disciplina dell’Eea (European Economic Area), il modello di Norvegia, Islanda e Liechtenstein, né in quella dell’Efta (European Free Trade Association), quella della Svizzera che vi aderì proprio per porre fine all’isolamento della sua forte industria farmaceutica. In tal caso, ipotesi più probabile ad oggi, il castello di carte crollerebbe colpita con particolare pesantezza.
La sede di Canary Wharf Intanto sarà costretta al trasloco dall’elegante sede di Canary Wharf l’authority europea, l’Ema, (alla pari della sua “vicina di casa” Eba, l’authority delle banche): qui la candidatura più forte è quella di Milano, che ha già praticamente preparato gli spazi (all’Ema lavorano quasi 700 persone) nell’area ex-Expo. L’Ema fornisce l’equivalente del passport finanziario, cioè autorizzazioni ad operare e a vendere per le industrie farmaceutiche, farmaco per farmaco e progetto di ricerca per progetto di ricerca, valide su tutto il territorio europeo. Un automatismo che evidentemente con la Brexit decadrà. Ma più profonde saranno le conseguenze.
«Perché le aziende possano avere di nuovo accesso ai mercati europei ed essere omologate fuori dall’Uk, così come per altre industrie come ad esempio quella dell’auto, bisognerà rinegoziare da capo tutte le specifiche e i disciplinari produttivi - spiega Rosa di Macro-Geo - solo che qui non è discussione la posizione di un fanale o l’inclinazione di un sedile, bensì aspetti molto più cruciali che riguardano la salute delle persone».
LA POTENZA DELLA RICERCA
Sul binomio industria-ricerca si impernia l’attività di università fra le più prestigiose del mondo, legate da una fitta maglia di accordi economici con le aziende. Tutto questo sarà rivisto perché le aziende probabilmente saranno meno ricche perché più isolate ed escluse dalla corrente di libero scambio europea, e anche le facoltà di medicina come tutte le altre avranno meno iscritti visti i problemi di visti, permessi di soggiorno e simili che stanno emergendo, anche per i cittadini europei (anzi soprattutto per loro perché mantenere la libera circolazione delle persone manderebbe in corto circuito l’hard Brexit che si propugna).
Mike Thompson, capo dell’Association of british pharmaceutical industry
Senza contare l’esclusione dai copiosi finanziamenti per i progetti europei in corso e successivi. Mentre Londra è stata fra il 2007 e il 2016 un “contribuente netto”, cioè ha dato più di quanto ha ricevuto (è uno dei motivi dell’esito del referendum del 23 giugno),proprio nel settore farmaceutico è stata invece un net receiver. «Siamo spaventati non solo dalla perdita di business ma dalla esclusione dei pazienti britannici dalle medicine più avanzate », è l’allarme di Mike Thompson, capo dell’Association of british pharmaceutical industry. «Temiamo che le industrie di tutto il mondo scelgano di sperimentare e lanciare i nuovi farmaci prima negli altri Paesi e poi in Uk, e non il contrario come accade oggi appunto perchè qui ci sono la ricerca, l’authority, oltre a un tessuto di startup biotecnologiche cruciali per molte ricerche».
MERCATO CHE SI STRINGE
Il clinical trial market britannico è destinato a stringersi anche perché nel 2018 entrerà in funzione un ambizioso portale unico comunitario, una piattaforma su cui saranno centralizzati le richieste, le approvazioni, il monitoraggio e i risultati di tutte le sperimentazioni condotte in Europa. La Gran Bretagna ne sarà esclusa. Così come torna quantomeno in discussione il ruolo delle oltre 50 partnership pubblico-privato britanniche coinvolte nella Innovative Medicines Initiative del programma Horizon 2020. Secondo la rivista specializzata Pharmalife, 8,5 miliardi di fondi e investimenti nei prossimi quattro anni sono minacciati dalla Brexit.
Per salvarne almeno alcuni, Londra ha precipitosamente aggiunto 10 miliardi al bilancio 2017 del servizio sanitario nazionale. Ma l’impressione è che la deriva sia di ben altra portata. Il caso dell’industria farmaceutica è complesso. «Potrebbe andare a finire che il Regno Unito negozi con l’Europa un trattato simile a quello Ceta appena concluso fra Ue e Canada », riflette Yulia Privolnev, senior analyst del Decision Resources Group di Londra. «Con esso, sotto l’egida Wto, è stato eliminato il 98% dei dazi e della barriere tariffarie. Ma c’è una ritrosia quasi istintiva a perseguire un accordo del genere, che sancirebbe per sempre la completa separazione fra Uk ed Europa ». Che però è proprio quello che il popolo britannico ha indicato.