Maria Silvia Sacchi per il “Corriere della Sera”
Di chi è la G? Chi si identifica con la settima lettera dell’alfabeto? Gucci, il marchio fiorentino della moda che oggi fa parte della scuderia francese di Kering? O Guess, il brand americano co-creato da Paul Marciano?
Forse, se i mercati non si fossero così enormemente allargati, il problema avrebbe potuto non porsi nemmeno e ognuno si sarebbe tenuto la propria, di G; tonda, quadrata o con il tratteggio. L’uno su un lato dell’oceano, l’altro su quello opposto.
Ma oggi che tutti devono essere ovunque nel mondo, il rischio di confusione è alto e il «caso della G» è diventato una partita internazionale che da sei anni si gioca su tre continenti diversi — l’Europa, l’America e l’Asia — con risultati che si alternano a dimostrazione della complessità della materia.
Tema delicatissimo, quello della tutela della creatività e della proprietà intellettuale. Che sempre più spesso, però, vede impegnate le imprese dello stile e insieme a loro le aziende dell’alimentare o tecnologiche. È da ricordare, per esempio, la vittoria di Christian Louboutin come «re» della suola rossa (tranne quelle con tomaia dello stesso colore) nella contesa che lo ha visto opporsi a Ysl.
O la battaglia che ha messo su fronti avversi il gigante francese del lusso Lvmh e il gigante americano dei motori di ricerca, Google. L’ultima (ma non ancora definitiva) puntata della «lite sulla G» è andata in scena pochi giorni fa a Parigi e ha assegnato un punto a favore di Guess.
I giudici della capitale francese hanno, infatti, rigettato le domande di Gucci, dichiarando che «non vi è né contraffazione di marchi né concorrenza sleale né parassitismo — come reso noto da un comunicato della società statunitense —. Il Tribunale di Parigi — prosegue la nota diffusa da Guess — ha interamente rigettato la domanda di danni di cinquantacinque milioni di euro richiesti da Gucci e ha condannato quest’ultima a pagare a Guess le spese di lite».
I giudici hanno, inoltre, dichiarato la parziale «decadenza di tre marchi di Gucci, internazionali e comunitari, il che significa — dice Guess — che Gucci non può più rivendicare l’uso esclusivo di tali marchi per determinati prodotti».
«Si tratta di tre registrazioni oggetto di nullità parziale riguardo a soli due nostri marchi figurativi — ribattono da Firenze —. Tale decisione è appellabile e non è immediatamente esecutiva, quindi non ha alcun effetto». I legali sono al lavoro sul ricorso in appello, che dovrà essere depositato entro il 30 marzo.
Come s’è detto, la battaglia tra i due gruppi della moda va avanti ormai da sei anni. A dare avvio alle ostilità è stata Gucci muovendosi negli Stati Uniti, il principale mercato del lusso del pianeta, sul quale le maison si giocano gran parte dei propri risultati. E nel round americano i giudici (era il 21 maggio del 2012) hanno dato prevalentemente ragione a Gucci, riconoscendole anche danni per 4,66 milioni di dollari. Negli Usa, la questione si è conclusa così.
«Il Tribunale di New York ha riconosciuto che la scritta in corsivo di Guess e Gucci non sono l’una l’imitazione dell’altra e questo a Guess andava benissimo, per questo non ha impugnato la sentenza americana» spiega Paola Tarchini, l’avvocato che segue in Italia il gruppo Usa.
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Un fronte è stato aperto, infatti, anche nel nostro Paese e qui la querelle ha avuto un esito diverso. Il procedimento è stato vinto in prima istanza (il 10 gennaio del 2013) da Guess, per essere poi parzialmente modificato in appello (il 15 settembre dell’anno scorso): a favore di Guess con la conferma della nullità di alcuni marchi di Gucci e la non contraffazione e imitazione servile da parte di Guess; e a favore di Gucci con il riconoscimento della condotta anticoncorrenziale e parassitaria di Guess.
Infine, un ulteriore procedimento è aperto davanti alla giustizia cinese, vinto da Gucci e appellato da Guess.
SALMA HAYECK E FRANCOIS-HENRI PINAULT
Paul Marciano, il co-fondatore e ceo di Guess, ha dichiarato di continuare «a credere fermamente che tutte queste battaglie giudiziarie sono una totale perdita di tempo, di energie e di denaro, che invece dovrebbero essere impiegati nel nostro lavoro».
Un invito a sedersi al tavolo per una trattativa che chiuda questi anni di giudizi.