DOPO LA TRUFFA DI ELIZABETH HOLMES LA SILICON VALLEY NON È PIÙ LA STESSA - ALLA FINE LA GIOVANE, BELLA, AFFASCINANTE, MISTERIOSA IMPRENDITRICE CE L'HA FATTA A ENTRARE NELLA STORIA, MA DALLA PORTA SBAGLIATA: LA SUA CONDANNA PER L'INGANNO DELLA FINTA RIVOLUZIONE DEGLI ESAMI DEL SANGUE POTREBBE RAPPRESENTARE LA MORTE DELLE "FAKE NEWS" E DELL'ATTITUDINE A VENDERE UN PRODOTTO PRIMA CHE SIA GIÀ FINITO - UN APPROCCIO AL MERCATO PER ANNI TOLLERATO IN CALIFORNIA E CHE ORA DOVRÀ FINIRE…

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Mario Platero per “la Repubblica - Affari & Finanza

 

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Alla fine c'è riuscita. Non come avrebbe voluto - segnando una rivoluzione biotecnologica e l'avvio di un'epoca nuova per le analisi cliniche del sangue - ma Elizabeth Holmes, bella, affascinante, misteriosa, giovane, è riuscita a fare storia lo stesso.

 

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La sua condanna su quattro capi d'accusa per truffa della settimana scorsa ha segnato la fine di un'epoca per la Silicon Valley, che, diciamolo, non è cosa da poco. Questa ragazza, che a 21 anni era una Stanford dropout e aveva già raccolto danaro per sviluppare la sua impresa, è ormai un personaggio epico per la storia imprenditoriale americana. Più di Bernie Madoff, che seguiva un "Ponzi scheme" già collaudato da generazioni a Wall Street; più del caso Enron.

 

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Elizabeth Holmes è invece già leggenda. David Straitfeld la paragona sul New York Times a una versione al femminile del Grande Gatsby: lui vendeva obbligazioni finte, lei un'analisi del sangue finta con macchine finte, ma entrambi avevano il dono carismatico dei predestinati, dei giovani, ai quali non si obietta nulla. Ci si chiede come la Theranos (dalla combinazione di therapy e diagnosis) sia riuscita a menare per il naso personaggi del calibro di Rupert Murdoch.

 

La risposta, e qui arriviamo al punto, sta nella cultura facilona, idealista, ottimista e molto orientata alle "fake news" della Silicon Valley. I grandi notabili della Valle hanno rimandato al mittente le accuse di complicità intellettuale con la Holmes, anche perché - dicono - lei non produceva piattaforme digitali.

 

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Ma sul banco degli imputati c'erano anche loro per aver facilitato una cultura che oggettivamente è stata in molti casi di grande aiuto: quella di vendere un prodotto prima che sia davvero finito, la cultura del "Fake it to Make it" molto diffusa nei garage della West Coast in cerca di venture capitalist pronti a credere a una promessa.

 

Del resto, le "fake stories" sono ormai parte integrante della filosofia politica anche a Washington: vincere le elezioni non è importante, è importante dire di averle vinte e quella diventa la verità morale catalogata etimologicamente da una definizione molto precisa: la "post verità" quell'abitudine di smentire le verità scientifiche sostituendole con verità emotive e personali.

 

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È questa cultura ad essere stata condannata la settimana scorsa. Lo stesso giudice responsabile del processo, Edward J. Davila, della Corte Distrettuale di San Jose, lo aveva chiarito: «È comune nella Silicon Valley sposare quel tipo di condotta». E infatti la Holmes non è la prima. Il New York Times ci ha dato una casistica anche di diverse estrazioni intellettuali.

 

 A partire da quello di Ozy Media, una venture di comunicazione digitale che aveva fatto molto rumore nel settore. Come spesso capita in questi casi, la cortina fumogena era impenetrabile persino per gli addetti ai lavori: il business plan non funzionava, le prove di audience non si trovavano e in una chiamata con Goldman Sachs, chiave per il futuro dell'azienda, uno dei dipendenti si è fatto passare per un executive di YouTube.com che raccontava la mirabilie della nuova società digitale e come avrebbero lavorato insieme.

 

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Visto che mentire può essere utile, Ozy si è allargata un po' troppo, ha inventato contratti di distribuzione che non esistevano e ha dato informazioni fuorvianti sul modello di business. Ha chiuso lo scorso ottobre, non con la vergogna della menzogna ma con l'apprezzamento per averci provato.

 

Un altro gruppo che sembrava decollare nella stratosfera della nuova economia è stato WeWork, si preparava a una Ipo valutata 47 miliardi di dollari, ma dopo le stringenti procedure di controllo della Sec ci si è accorti che aveva manipolato i conti. L'Ipo è andata avanti ma nel frattempo sono stati bruciati 40 miliardi, oggi ne vale soltanto 7, cifra ragguardevole ma nulla rispetto alle valutazioni da capogiro dell'inizio bruciate nel giro di pochi giorni.

 

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E per cambiare settore citiamo anche Nikola, un produttore di auto elettriche: quando i fondatori hanno fatto una presentazione video del nuovo prototipo di un veicolo elettrico che avrebbe dovuto contrastare Tesla, non hanno spiegato che l'auto si muoveva perché scendeva dolcemente sul pendio di una collina.

 

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Vogliamo credere che la Holmes fosse davvero convinta dei suoi declamati successi. Ho sentito una sua registrazione di un podcast del 2005 con una dei guru mediatici del settore, Moira Gunn, cascata anche lei nella rete, di semplicità, trasparenza, chiarezza di vedute di questo personaggioche sarebbe stato amatissimo da Scott Fitzgerald.

 

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Quando la Gunn chiede alla ventunenne di spiegare la tecnologia che ha inventato, la risposta è questa: «È il frutto di una miniaturizzazione delle macchine e dei processi e dall'integrazione di varie tecnologie, se le metti insieme puoi massimizzare il valore aggiunto e una gocciolina di sangue può essere prelevata senza toccare un nervo e i risultati sono immediati».

 

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Avete capito? Io no. Ma la Holmes racconta di aver studiato a Stanford ingegneria chimica e elettrica. È stata anche a Singapore - dice - «per aiutare a sviluppare una nuova microtecnologia ».

 

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Quale, non è dato sapere. Ciò per dire che gli indizi c'erano tutti per indurre al sospetto, ma davanti agli occhioni sgranati di Elizabeth che diceva di non poter andare oltre per proteggere segreti industriali, anche i più scafati fra gli investitori alzavano bandiera bianca e firmavano l'assegno. In tutto ha raccolto - e bruciato - 945 milioni di dollari e 9 miliardi di capitalizzazione. Troppo anche per la Silicon Valley.

 

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I giurati hanno tralasciato alcuni capi d'accusa su cui non hanno trovato accordo ma hanno colpito su altri quattro che l'accusavano di aver defraudato gli investitori. Quattro su undici. Come dire, sul resto possiamo scherzare ma sulla trasparenza dell'investimento occorreva una lezione, con buona pace della Silicon Valley che sotto sotto rivendica la bontà della cultura che ha tradito Holmes. Così adesso è lei a rischiare 20 anni di prigione per ciascuno dei capi d'accusa. E Silicon Valley? Non credo si spaventerà davvero: «The show must go on».

 

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