Ernesto Assante per la Repubblica
«Eravamo ragazzini, diciassette anni, forse non proprio ragazzini, cominciavamo a ragionare con la nostra testa e pensavamo di dover fare quello che era giusto fare». Antonello Venditti è uno degli angeli del fango di Firenze.
Ricorda la giornata del 4 novembre 1966?
«Io mi sveglio, sto per andare a scuola e sento la notizia, vedo le immagini. Poi vado a scuola: ma lì non se ne parla. La scuola all’epoca non era adeguata, non faceva nulla che ti mettesse davvero in contatto con il mondo, così facevi da solo, ti informavi e cercavi di capire.
E così in molti liceali, in quelli di un certo tipo, colti, attenti a quello che accadeva, che si stavano formando un’idea politica, di amore, di vita, scattò una molla e in tanti pensarono che la cosa giusta da fare fosse andare lì a dare una mano».
Come arrivò a Firenze?
«Se lo chiede a tutti quelli che andarono, di certo la metà l’ha dimenticato. Io non ho un ricordo preciso di quanti giorni restai e di come sono tornato, come andai invece l’ho ricostruito.
Avevo due realtà diverse in casa, una era mia madre, professoressa del Giulio Cesare con la quale si poteva parlare poco. Se gli avessi detto “mamma, parto, vado a Firenze”, mi avrebbe detto: “No Antonello, non parti”. Per paura, mi avrebbe detto che non potevo saltare i giorni di scuola».
E allora?
«Dato che non sarei riuscito con lei a far passare il messaggio che non erano giorni persi ma guadagnati alla vita e alla storia dell’arte, mi rivolsi a mio padre, decisamente più anarchico e in grado di capire, perché era un funzionario statale addetto alla faccende della protezione civile, era il viceprefetto che si occupava delle calamità nazionali, chi meglio di lui sapeva cosa stava accadendo a Firenze.
Gli dissi che dovevo andare e lui mi disse di sì. Spiegò a mia madre cosa andavo a fare e perché e io restai in contatto con lui. Partii con tanti altri ragazzi italiani e stranieri in un pullman perfettamente organizzato dalla scuola americana Overseas School con stivali, pale, pronti a lavorare ».
Cosa vide quando arrivò?
«Arrivammo in una città in bianco e nero, completamente coperta di fango. Era uno scenario incredibile. Arrivammo a Firenze e ci radunammo con altri ragazzi in un punto d’incontro prefissato, dove ci accolsero e ci diedero un ruolino di marcia, con i compiti che dovevamo svolgere. Io mi unii a un gruppo di ragazzi italiani, meno organizzati, e a moltissimi ragazzi fiorentini. Normalmente restavamo a dormire nella zona dove durante il giorno avevamo spalato, abbiamo dormito anche sotto al porticato degli Uffizi, con i sacchi a pelo.
Quello che mi diedero era perfetto, quello degli scout americani, ed è quello con il quale poi ho girato mezza Europa. I ragazzi che non erano organizzati come noi e avevano bisogno di copertura per la notte stavano alla stazione, era un grande accampamento, le ferrovie avevano messo a disposizione le carrozze e gran parte dei ragazzi stavano lì».
Che ragazzi erano?
«Ragazzi di tutto il mondo, pronti e disponibili ad adattarsi alla situazione e vivere insieme dando una mano, c’era una voglia incredibile di essere utili a qualcuno e qualcosa»
È rimasto in contatto con alcuni di loro?
«No, non ci siamo mai ritrovati. E anche con De Gregori, che è stato lì negli stessi giorni, per quanto possa sembrare incredibile, non ne abbiamo mai parlato».
Cosa le è rimasto di quella esperienza?
«Il senso di solidarietà, la condivisione, la voglia di essere utili, perché ogni gesto, per quanto piccolo, fa la differenza. Tante cose oggi sono diverse ma quello che non è cambiato, per fortuna, e che l’Italia sa essere fraterna quando serve, solidale e pronta, anche fisicamente. Non abbiamo solo il cuore, ma anche mani e gambe che ci portano ad aiutare».