Lettera di Publio Ovidio Nasone pubblicata da “il Giornale”
Orsa maggiore e minore, costellazioni che dirigete, senza mai immergervi, l'una le navi greche l'altra quelle fenicie, poiché tutto voi vedete, poste al culmine dell'asse celeste, e non scendete in mare a occidente, e il vostro percorso, cingendo con moto circolare la cittadella del cielo, rimane al di sopra della terra senza mai toccarla, volgete, vi prego, lo sguardo a quelle mura che un tempo, a quanto si dice, Remo, il discendente di Ilia, oltrepassò a suo danno; dirigete i vostri raggi sulla mia sposa, e ditemi se conserva il mio ricordo, o no.
Ahimè, perché temere? È una cosa evidente questa che domando. Perché la mia speranza vacilla, venata di incertezza e timore? Credi a quello che è in realtà e vuoi che sia, e smetti di nutrire timore per quanto è sicuro, e abbi saldamente fede in una salda fedeltà.
Dì a te stesso, con voce che non indulge alla menzogna, quello che gli astri fissati sul polo celeste non possono dirti: che lei, a cui tu pensi più che a ogni altra cosa, ti ricorda sempre, e serba con sé – è tutto quel che può – il tuo nome. Ti ha sempre davanti agli occhi come se tu fossi presente, e da tanto lontano, se vive, ti ama. È vero che, quando la tua mente afflitta si rivolge ai giusti motivi di dolore, il quieto sonno abbandona il tuo cuore agitato dal ricordo?
Non ti vengono tristi pensieri quando il contatto del letto e del mio posto non ti lascia dimenticarmi, non ti senti avvampare, e la notte non ti sembra senza fine, e non hai le ossa stanche e doloranti per il continuo rigirarti? Sono sicuro che hai questi momenti e anche tutto il resto, che il tuo amore dà manifestazioni di dolore, che il tuo tormento è pari a quello della sposa tebana quando vide il carro tessalo che trascinava Ettore ricoperto di sangue.
Tuttavia io stesso sono incerto su cosa augurarmi, e non so dire quale vorrei che fosse il tuo stato d'animo. Sei triste? Mi spiace esserti causa di sofferenza. Non sei triste? Ma dovresti esserlo, avendo perso il marito. Tu affliggiti dunque per la perdita che ti ha colpito, mia sposa dolcissima, e passa il tempo nella tristezza provocata dalla mia sventura, piangendo il mio fato: nel piangere c'è come un piacere, il dolore si appaga di lacrime e vi trova sfogo. E magari tu dovessi versare lacrime non sulla mia vita, ma sulla mia morte, e per la mia morte tu fossi rimasta sola!
Avrei esalato il mio ultimo respiro, da te raccolto, nell'aria della patria, le tue lacrime devote avrebbero bagnato il mio petto, e nel giorno supremo le tue dita avrebbero chiuso i miei occhi rimasti a fissare quel cielo familiare, e le mie ceneri avrebbero riposato nella tomba dei miei avi, e la terra che avevo toccato alla nascita avrebbe le mie spoglie e, infine, sarei morto senza commettere colpa alcuna, come pure ero vissuto: ora della mia vita devo arrossire, per colpa della pena che l'accompagna.
Infelice me, se al sentirti definire moglie di un esule tu distogli lo sguardo e il volto si arrossa! Infelice me, se per te è un'ignominia presentarti come mia moglie, se ormai ti vergogni di esserlo! Dov'è quel tempo in cui andavi fiera di tuo marito, e non ne tacevi il nome? Dov'è quel tempo (se non sei contraria a che se ne parli) in cui, mi ricordo, ti faceva piacere sentirti dire mia, ed esserlo?
Come si addice a una buona moglie, tu vedevi in me tutte le qualità: a quelle realmente mie la parzialità dell'amore te ne faceva aggiungere molte; non c'era un altro uomo che tu mi preferissi – tanto importante ero per te – e che avresti voluto come marito al posto mio.
Anche ora non devi vergognarti di essere sposata con me: questa tua condizione dev'essere vissuta con dolore, non con vergogna. Quando Capaneo protervo cadde colpito all'improvviso, leggi forse che l'averlo per sposo abbia fatto arrossire Evadne? Il signore dell'universo spense fuoco con fuoco, ma non fu un motivo per cui Fetonte venisse rinnegato dai suoi cari, e Semele, per esser morta nel volere esaudito un desiderio troppo grande, non divenne un'estranea per suo padre Cadmo:
e a te il tenero viso non deve arrossire di vergogna per il fatto che io sono stato colpito dalla violenta folgore di Giove. Piuttosto ergiti sollecita in mia difesa, e sii per me il modello di una brava moglie, facendo fronte a questo triste ruolo con le qualità della tua indole: è in salita, su un percorso scosceso, il cammino della gloria. Se la sorte di Troia fosse stata felice, chi conoscerebbe Ettore? Il suo valore si fece strada attraverso le sventure del suo popolo.
Sarebbe vana, Tifi, la tua arte, se i flutti non agitassero il mare; e vana sarebbe la tua, Febo, se gli uomini fossero sempre sani. Le qualità d'animo, che quando la sorte è buona restano nell'ombra, inerti e sconosciute, nella sventura vengono alla luce e danno prova di sé. La mia sorte ti dà modo di crearti dei titoli di merito, e la tua devozione di moglie ha di che innalzarsi bene in vista: sappi approfittare delle circostanze che ora hanno creato un grande spazio disponibile dove puoi costruire la tua fama.
a Fabia
OVIDIO OVIDIO OVIDIO ARS AMATORIA