Marco Giusti per Dagospia
Big Eyes di Tim Burton
Un film sull’arte? Soprattutto un film sulle origini dell’arte americana e del pop surrealism californiano. Qualcosa che ha influenzato, col suo gusto del cattivo gusto, col suo kitsch-camp da fine anni ’50, il mondo del cartoon, dei giocattoli, dei toys d’artista, del cinema. Ma anche lo stesso Andy Warhol e lo stesso Tim Burton, che a Keane, cioè a Margaret Keane e alla sua stravagante storia ha dedicato questo avvolgente, sofisticato, profondo Big Eyes, molto più che un film biografico sulla regina del kitsch americano.
Al punto che lo possiamo anche leggere come un serio ritorno a casa del regista al suo mondo californiano e alle sue matrici culturali. Senza Johnny Depp, senza Helena Bonham- Carter, lontano da Londra e dal fantasy. Non a caso il film è scritto da Scott Alexander e Larry Karaszewski, la stessa coppia di sceneggiatori che scrissero uno dei capolavori di Tim Burton, ‘’Ed Wood’’, altro viaggio alle origini del kitsch e della cultura pop americana. In un primo tempo, anzi, il film doveva essere diretto dagli stessi sceneggiatori con Kate Hudson nei panni della pittrice e Thomas Haden Church in quelli del marito Walter Keane.
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Poi entrò nel progetto Tim Burton e si pensò a Reese Witherspoon e a Ryan Reynolds, infine, con l’entrata in scena di Harvey Weinstein, che lo ha inteso come un film acchiappa-Oscar, i due protagonisti sono diventati Amy Adams, l’eroina di American Hustle, e il grandioso Christoph Waltz di Inglorious Bastards. Se Weinestin porta il cast, da parte sua Tim Burton porta il suo meraviglioso direttore della fotografia francese Bruno Delbonnell, che ricostruirà, pur se in digitale e non in 35 (costi…), una California acquarellata da mondo di Keane, lo scenografo Rick Heinrichs, la costumista Collen Atwood, la musica di Danny Elfman.
Non c’è nessuno dei suoi attori feticcio, nessuna moglie, ma tutta la sua squadra di collaboratori più fidati. Così il film ha questo impianto visivo da capogiro, malgrado il digitale, che ci colpisce già nelle primissime scene, dove si torna proprio alla Los Angeles della suburbia di Edward Scissorhand, che non a caso è la patria di Tim Burton e di tutti i suoi sogni. Da lì si passa a North Beach, San Francisco, dove la nostra eroina, Margaret, Amy Admas, dopo aver lasciato il marito, va a vivere con la figlioletta Jane e i suoi quadri coi bambini dagli occhi tristi, o pazzi, crazy, con l’aiuto dell’amica DeAnn, Krysten Ritter.
E’ lì che Margaret incontra l’affascinante Walter Keane, Christoph Waltz, affabulatore, venditore di fumo, un venditore di immobili che si dichiara artista. E lo sposa pure. Il sofisticato gallerista Ruben, un divertente Jason Schwartzman, glielo dice subito: Non è arte! Tutto il mondo vuole Kandinsky e Rothko, che se ne fa delle croste dei Keane? Ora, nessuno dei due è un vero artista, ma se Walter è non più di un pittore della domenica, almeno Margaret possiede, coi suoi bambini con i big eyes, una sua follia, una sua ingenuità kitsch che può colpire le signore di una società repressa e bigotta come quella della California. Non solo.
E’ come l’espressione più profonda dell’orrore della suburbia califoniana, della provincia americana, del sogno disneyano. Walter non capisce tutto questo, lo intuisce, e applica le leggi della vendita da piazzista all’arte riuscendo così a vendere miracolosamente i quadri di Margaret, e visto che entrambi si firmano Keane, si appropria delle sue opere e della sua personalità artistica. Riesce a vendere, in un mondo dove le pittrici, a parte Georgia O’Keefe, giustamente citata da Margaret, vengono ferocemente rifiutate, un mondo totalmente femminile come disegnato da un maschio.
Si appropria degli occhioni, i big eyes, e Margaret non riesce a impedirglielo, pur soffrendo per la perdita. Come non gli ha impedito di appropriarsi della sua vita. Complici più la cultura del tempo, e la Chiesa, che non il mondo dell’arte. Il film segue i dieci anni di gloria e di tragedia di una coppia dove la moglie, artista, è schiavizzata, e il marito diventa una star dentro il mondo di Hollywood, pronto a dedicare quadri a Joan Crawford, a Natalie Wood, a Dean Martin, a Jerry Lewis.
In qualche modo Keane è la prima artista di Hollywood. E Walter, prima di Warhol, intuisce la forza del vendere non solo i quadri, ma anche i poster, i manifesti da attaccare al muro. In una scena meravigliosa Margaret fa la spesa al supermercato coloratissimo e trova accanto alle lattine di Campbell warholiane i suoi poster firmati Keane. Fa parte tutto della vendita dello stesso sogno all’ingrosso. Fino a quando, lei si offenderà e ribellerà, svelando al mondo chi è la vera pittrice fra i due. “Lottano per mettere la firma su questa roba”, è il commento del gallerista Ruben. Ma il mondo dell’arte è presentato da Tim Burton e dai suoi sceneggiatori molto meno ottuso e chiuso di potessimo aspettarci.
Si divide tra il durissimo critico del “New York Times”, un grande Terence Stamp luciferino, che massacra l’arte di Keane e i più giovani esperti che capiscono la grandezza di Walter come venditore di sogni e grande comunicatore. Cose che la povera Margaret bionda e con gli occhi sbarrati, incapace di reagire alla prepotenza del marito, non riuscirà mai a essere. In questo Tim Burton rende la coppia giustamente ambigua. E’ vero che Walter si appropria dei quadri della moglie, ma è parte dell’opera, in quanto suo massimo comunicatore. Mentre lo stesso Warhol sta perfezionando il sistema.
E, allora, chi dei due è il vero artista? Sappiamo tutti che pure Mickey Mouse non è opera di Walt Disney, ma di Ub Iwerks e Felix The Cat è opera di Otto Messmer e non di Pat Sullivan, ma chi è alla fine il padrone delle loro opere? Non so se Big Eyes è il grande ritorno al cinema maggiore che aspettavamo da anni da Tim Burton, piuttosto spento negli ultimi film, di certo è un grande film su una meravigliosa storia tra gli anni ’50 e ’60, sull’America e sulla sua cultura.
Amy Adams coi suoi occhi fissi e spalancati per tutto il film ha trovato un ruolo da Oscar e Christoph Waltz è ancora una volta magistrale in un ruolo melvilliano di Confidence Man senza carattere proprio, una specie di spugna in grado di diventare di volta in volta artista o avvocato alla Perry Mason. Gli altri attori, da Krysten Ritter a Danny Huston, il giornalista amico di Walter, a Terence Stamp sono perfetti. Alla fine è un film che vorresti rivedere subito e più volte. Per puro piacere. In sala dal 1 gennaio.