IL CINEMA DEI GIUSTI - CON “LA TRATTATIVA” DI SABINA GUZZANTI, IL CINEMA TORNA AI GRANDI TEMI POLITICI E ALL’INDAGINE SUGLI ULTIMI 20 ANNI DI STORIA ITALIANA
Marco Giusti per Dagospia
La trattativa di Sabina Guzzanti
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Svegliate Marco Travaglio, Luciano Violante e Nicola Mancino che esce in sala "La Trattativa" di Sabina Guzzanti dopo il lancio a Venezia, dove il film venne accolto da grandi e giusti applausi da parte dei critici alla fine delle proiezioni. Già allora notammo come le opere italiane se non più belle, certo più contemporanee e legate alla realtà del paese fossero state relegate ai margini della Mostra.
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Perché sia "Belluscone" di Franco Maresco che "La trattativa" di Sabina Guzzanti, fotografato da Daniele Ciprì, cioè l’altra parte di “Cinico TV”, rappresentano in fondo la parte più viva, interessante e politica del nostro cinema o di quel che ne resta e la parte più clamorosamente indagante sulla trattativa tra noi, italiani tutti, non solo siciliani, la mafia e il potere, sia questo rappresentato da Scalfaro, Mancino, Napolitano, Caselli o Belluscone.
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E non sarà un caso che questi film di ritorno al cinema di indagine sulla realtà degli ultimi vent’anni di vita italiana arrivino proprio da chi aveva iniziato a fare tv vent’anni fa e in qualche modo è stato poi clamorosamente fermato dalla trattativa tra Stato e tv berlusconiana. Come se la fine (speriamo…) del regimetto berlusconiano avesse provocato un ritorno ai grandi temi politici da parte di un cinema nato proprio dalla prigionia televisiva. Siamo noi, insomma, ad aver smarrito qualcosa in questi ultimi vent'anni che ci separano dalle stragi palermitane e dall'arrivo di Forza Italia e della pace mafiosa nel nostro paese.
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Lontani dai fofismi benedicenti sulla messa in scena rigorosa della 'ndrangheta o sulle riletture mereghettian-leopardesche, sia "Belluscone" che "La trattativa" lavorano sul rapporto realtà-ricostruzione televisiva-decostruzione cinematografica-morte del neorealismo arrivando a una sorta di Italia postatomica, forse priva del cinema come lo abbiamo amato finora, dove l'intervista vera a un magistrato o a un mafioso o a Marcello Dell'Utri diventa identica a una ricostruzione felliniana in studio della confessione di un pentito come Spatuzza, che nel film della Guzzanti è meravigliosamente interpretato da Enzo Lombardo.
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E' la strada santoriana della ricostruzione in studio, si dirà, che tanto fece colpo qualche anno fa, mischiata ai modelli di neorealismo alla Francesco Rosi, vedi la citazione non dichiarata di "Salvatore Giuliano", che oggi è finito a dir la sua, vecchissimo, sulla vita e le opere di Gianluigi Rondi, e mischiata pure alle derivazioni di cattivo realismo giornalistico come accadde nel non dimenticato "Il sasso in bocca" di Giuseppe Ferrara, che per primo osò mischiare interviste reali e ricostruzioni cinematografiche sulle storie di mafia e i legami col potere democristiano e i servizi.
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Stracultissimo, si dirà. Anche Sabina Guzzanti non si vergogna di buttarla in sketch, in parodia, presentando Massimo Ciancimino come fosse una macchietta, o i pentiti incappucciati come ridicoli pupazzi (lo fa anche Maresco). Arriva pure a mostrarci una meravigliosa riunione mafiosa che si svolge durante una processione, con i capi della mafia che parlano sotto alla statua della Madonna (o di Santa Rosalia).
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E si-ci concede di interpretare una teologa nella parte più bella e sorprendente del film, l'esame di teologia di Spatuzza in carcere, e di riprendere il suo vecchio e storico Berlusconi, per dimostrarci quanto clamorosamente la tv degli anni 90 avesse capito da subito dove stavamo andando in Italia e quanto fosse invece confuso e indifferente il mondo del cinema. Arriva anche ad altro, mentre mette in scena, con civilta' e precisione, ci pare, la storia documentata della trattativa stato-mafia che vede coinvolti non solo Mori, Mancino, Scalfaro, ma anche Caselli, che si è prontamente risentito.
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Arriva anche a spiegarci che l'unica possibilità di lettura e di superamento di questo orrore è religioso, buddista o cattolico che sia il regista, e la chiusa col Spatuzza che si commuove pensando all'omicidio di Don Puglisi, ci fa finalmente capire il film e la sua complessa struttura dove la sola redenzione dall'orrore è nel sorriso morale di fronte alla morte.
Non siano nel mondo di Pif, delle Iene berlusconiane. Siamo di fronte a qualcosa di più lontano e profondo che scava in quello che abbiamo vissuto e documentato in questi vent'anni di tv e giornalismo politico. Sabina riesce a inglobare tutto questo, la fiction mafiosa con Ninni Bruschetta e la brutta grafica santoriana, i servizi di Sandro Ruotolo e le litanie del ‘’Fatto’’. Ne fa un film forse meno folle e esplosivo di "Belluscone', ma altrettanto indimenticabile.