Marco Cicala per "Il Venerdì di Repubblica"
Puoi darti arie da strafigo scientista finché vuoi, ma non c’è niente da fare: ogni volta che torni nelle Catacombe dei Cappuccini stringi non solo i denti. E se attraverso la vecchia porta a vetri intravedi una comitiva precederti nella visita, ti aggreghi volentieri. Comunque l’effetto horror dura un soffio. Subito riprendi familiarità col popolo del sottosuolo: «Ottomila mummie» ricorda il responsabile Fabrizio Fernandez, «ma visibili solo 1980».
Bastano largamente, grazie. Dumas padre ne rimase incantato, Guy de Maupassant stomacato, Ippolito Pindemonte intenerito. All’epoca del Grand Tour , le cripte erano tappa obbligata All’epoca del Grand Tour, le cripte erano tap del turismo sepolcrale. Oggi avranno perso magari un po’ del vecchio smalto esotico, ma ogni anno in 60 mila vengono ancora a darci quantomeno un’occhiatina. Tempo fa, due coniugi ravennati che avevano preso sottogamba gli orari di visita (tutti i giorni, 9-13/15-18) rimasero chiusi sottoterra per una mezz’oretta e irritatissimi pretesero il rimborso del biglietto, euro 3.
Due secoli prima, raccontava Maupassant, a un ubriaco andò molto peggio. Il tizio s’era addormentato tra gli scheletri e, riavutosi dal sonno etilico in piena notte – esperienza di per sé mai gradevole – si sgolò a chiamare aiuto, però nessuno lo udì. Fu ritrovato l’indomani abbracciato ai cancelli: sobrio, ma ormai pazzo per sempre.
Se Sicilia e siciliani hanno una meritata reputazione di eccentricità, i famosi ipogei palermitani non fanno che rassodarla. Anche perché «le Catacombe violano almeno tre principi» della tradizione occidentale: «Secondo le consuetudini, il cadavere dev’essere sepolto da solo; orizzontale e nascosto alla vista». Qui invece «viene esibito», «lo si colloca in posizione eretta, vigile, attenta» e lo si mantiene in gruppo. Lo ricorda Ivan Cenzi in La veglia eterna (Logos edizioni). Corredato dalle foto di Carlo Vannini, è un ottimo libro per riavvicinarsi alla necropoli senza tenebrismi danbrowneschi o sbarazzine tentazioni pop.
Tutto cominciò a fine Cinquecento. Durante i lavori di ampliamento del cimitero riservato ai Cappuccini, le spoglie di 45 frati vennero recuperate dalla carnaia, la preesistente fossa comune, praticamente intatte. Miracolo. Del convento si inizia a parlare come di un posto dove le salme restano magnificamente in forma. Per farsi inumare dai Cappuccini si sgomita. In teoria i laici non sarebbero ammessi. Ma, cedendo alle pressioni della high society, l’Ordine mendicante finisce per accettarli.
Già nel Settecento le mummie dei non religiosi superano quelle del clero. Mummie, sì. Perché i corpi vengono lavorati. Il rodato metodo dei Cappuccini è «bio»: zero additivi, niente rimozione di viscere e cervello. Per otto/dodici mesi le salme vengono lasciate a essiccare nei cosiddetti colatoi. Eliminati liquami cadaverici e scorie della decomposizione, i trapassati sono «lavati con aceto e cosparsi di erbe aromatiche», le ormai vuote zone molli imbottite di paglia, stoppa o altre materie vegetali. Al contrario della carne, corruttibile e impura, le ossa sono «simbolo di purezza e durata». Che volete: per definizione, i peccati son carnali, mica ossei.
La moda di farsi seppellire dai Cappuccini è tale che le future tombe sono testate dai vivi come oggi una soluzione Ikea: «È una cosa comune scegliersi la propria nicchia... Provare se il corpo ci entra bene, se non siano necessarie delle modifiche» osservava un visitatore del 1773. Sempre in teoria, i trattamenti della beauty farm mortuaria sarebbero offerti a chiunque ne faccia richiesta, senza distinzione di censo. Unica condizione: che il caro estinto venga curato e visitato dai familiari con devota regolarità.
Ma di fatto le catacombe diventano subito riserva sepolcrale della buona società. Moyennant une rétribution annuelle versée par les parents, annotava Maupassant, attraverso donazioni sganciate ai frati, si intrecciano affarucci sulla pelle dei trapassati. In conformità coi proverbi che ammonivano circa la venalità del clero: Quannu sònanu li martòria, lu parrinu pigghia lu cappeddu e curri (Quando rintocca a morto, il parroco prende il cappello e corre) o il più crudo Unni carnazzu cc’è, li corva cùrrinu (Dove c’è carogna, i corvi accorrono). Nel 1837, i tariffari erano belli che formalizzati: once 12 per cadavere di uomo; 10 le donne; 8 i bambini.
Ormai al completo, e coi frati che nel frattempo hanno perso il monopolio dell’imbalsamazione, il cimitero viene chiuso nel 1880. Tra le rarissime spoglie accettate in seguito, quella di Rosalia Lombardo, la più famosa di tutte. Morta nel 1920 all’età di due anni – ufficialmente di polmonite – la bambina fu affidata alle mani del palermitano Alfredo Salafia, principe degli imbalsamatori.
Uno che, per dire, aveva fatto meraviglie con l’augusta salma del premier Francesco Crispi, restituendole maestà dopo una scadente mummificazione ad opera altrui. Sulla brillante carriera di Salafia – che fu ammirato dai sovrani di mezza Europa e aprì pure una filiale a New York – sono stati decisivi gli studi del giovane paleopatologo messinese Dario Piombino-Pascali. Lui sostiene che potrebbe esserci lo zampino del palermitano perfino nella mummia di Lenin esposta sulla Piazza Rossa. Ma – in barba alla leggenda secondo cui i grandi imbalsamatori si porterebbero il segreto nella tomba – a Piombino-Pascali va soprattutto il merito di aver trovato la combinazione del metodo Salafia, la formula che gli permise di immortalare il cadavere di Lombardo Rosalia.
Nel suo genere, un capolavoro di tenerezza fin nei dettagli: dalle guance, oggi meno paffute, ai riccioli, un tempo scuri e ora un filo sbiaditi, incollati sulla fronte a testimonianza d’una sudata agonia. Come si legge nell’imprescindibile Il maestro del Sonno Eterno (La Zisa edizioni), l’elisir di lunga morte escogitato dal mummificatore era un’iniezione di formalina, glicerina, sali di zinco, alcol, acido salicilico più paraffina disciolta in etere.
Piene di cadaveri eccellenti (Francesco Rosi ci girò le prime scene del film tratto da Sciascia), le Catacombe prolungano sottoterra l’ingiustizia del mondo emerso. Perché la morte sarà pure egualitaria, ma i cimiteri ancora no. Eppure, davanti al ghigno contorto di quei poveri notabili sontuosamente ischeletriti, già il nordico Dumas rimarcava la familiarità mediterranea, e più segnatamente siciliana, coi defunti. «Girando per la Sicilia, mai sentirete raccontare una sola di quelle poetiche storie di fantasmi che riempiono di terrore il Settentrione... Per l’uomo del Mezzogiorno, il morto è morto». Vero. Ma fino a un certo punto.
Oggi gli specialisti ti spiegano che poco o niente puoi capire della mummiologia meridionale senza considerare il rito della Doppia sepoltura: «Secondo questa concezione» scrive Piombino-Pascali, «subito dopo la morte biologica si apriva un periodo intermedio in cui l’anima vagava inquieta sulla Terra» e solo «con un corpo finalmente privo di carni corrotte, il morto, da presenza minacciosa per i vivi, si trasformava in antenato protettore e benevolo».
Ma allora, se perfino noi terroni cediamo ormai al brivido del macabro, vorrà dire che ci siamo un po’ nordificati? Di chi è la colpa? «Beh, i romantici hanno pesato». Siano cordialmente maledetti. «Ma in Sicilia, la chiave di tutto sta nel 2 novembre, festa dei morti» dice Antonino Buttitta, decano degli antropologi isolani. «Da noi si fa credere ai bambini che i defunti torneranno per una cena, portando doni. I cosiddetti pupi a cena: dolci, pupazzetti a forma di dama o cavaliere. I trapassati non sono spiriti negativi... Per riaffermare la continuità tra vita e morte che c’è di meglio di un regalo da chi non te lo aspetterresti?».
Anticamente la grazia siciliana sapeva fare pure di meglio: «Ai bambini si dà a credere che le anime dei nostri defunti vadano ad abitare una stella del firmamento: e ciascuno è contento di sapere che nella stella che più brilla sulla sua casa, abiti l’anima del padre o della madre, o della sorella o del fratello; queste anime talvolta comunicano tra loro, o passano da stella a stella». Lo scriveva il grande etnografo Giuseppe Pitrè. A proposito: anche lui venne mummificato da Alfredo Salafia. L’imbalsamatore sarebbe morto nel 1933, ma – siccome il destino ha spesso lo stesso ghigno beffardo di certi teschi – dei suoi resti si son perse le tracce.