Estratto da “Amascord, ispirato a fatti realmente accaduti”, di Claudio Sabelli Fioretti (ed. Aliberti)
Adriana Faranda, una delle più famose e più belle militanti delle Brigate Rosse, agli inizi della sua militanza, quando non era ancora clandestina, viveva insieme a sua figlia e a Valerio Morucci, capo della colonna romana delle Br.
Morucci non era il papà della bambina. Adriana pretendeva che Valerio, la mattina presto, uscisse dal suo letto, e da casa, per poi suonare il campanello e fingere di essere arrivato in quel momento.
Così la bambina non si rendeva conto che la mamma dormiva con un uomo che non era il suo papà. Mica male come summa del pensiero borghese applicato da una coppia che voleva combattere per cambiare il mondo.
Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia, no? Dei miei incontri con i terroristi che ho intervistato non ricordo domande e risposte. È più facile che ricordi elementi di contorno. L’immagine di Valerio Morucci che si sveglia all’alba, si veste di nascosto ed esce quatto quatto per poi rientrare suonando il campanello come niente fosse. Indimenticabile. Valerio Morucci, capito? Quello che organizzerà il sequestro Moro.
Di Valerio Morucci non riesco a dimenticare nemmeno la scena di Cortina d’Ampezzo dove presentava un suo libro. Non si era tirato indietro di fronte alle domande più imbarazzanti. Pentito? Certo, pentito. È inevitabile pentirsi guardando indietro. Rimorsi? Tonnellate di rimorsi. Ma nessun altro ha rimorsi in questa tremenda società? Chi distrugge intere popolazioni inondandole di bombe ha qualche pentimento da mostrare alla gente?
Disse anche: «Il dolore più grande della mia vita lo ho provato quando una delle mie vittime, cui avevo sparato alle gambe, mi incontrò dopo tanto tempo e mi sorrise. Quel sorriso per me era stato un colpo al cuore». Finita la presentazione, Morucci era sceso dal palco. Gli era venuto incontro un signore che gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio.
Curioso come una scimmia gli chiesi subito che cosa gli avesse detto. «Era Emilio Rossi, il giornalista della Rai che fu gambizzato da Adriana Faranda. Mi ha detto: “Visto che le cose stanno così, le sorrido anche io”». E se ne era andato zoppicando.
Anche per un terrorista è difficile dimenticare la vita normale. Fu proprio Morucci a raccontarmi che Lanfranco Pace, che lui stesso aveva fatto entrare nelle Br, fu cacciato perché non voleva assolutamente rinunciare al suo gioco preferito, il poker. Giocava a poker fino all’alba anche la notte precedente qualche azione. E così arrivava sempre in ritardo all’attentato, a giochi fatti.
Ho un altro ricordo: Franceschini che, uscito di prigione, non si dava pace perché non credeva alle deposizioni dei suoi ex compagni. Mi incuriosiva il suo incaponirsi nel non volere accettare i racconti che della lotta armata facevano gli altri. Lui era convinto di essere stato strumentalizzato dagli stessi che lui voleva combattere.
Era sicurissimo che esistesse un “livello superiore”. Non gli piacevano né Morucci né Moretti. Si faceva più domande lui degli inquirenti. Non gli tornavano i conti. Possibile che fossero così pochi i membri del gruppo di assalto di via Fani? Possibile che fossero così pochi i carcerieri di Moro in via Montalcini?
Per questo ci vedevamo spesso e una volta venne anche a trovarmi a Bracciano, a casa di mia madre. Venne con Anna, la sua fidanzata, ricca ereditiera, proprietaria di un albergo di lusso a Venezia. Lei mi colpì perché era molto bella e indossava delle calze a righe colorate, come Pippi Calzelunghe.
Mia madre servì loro un tè. Ma non li presentai. Non me la sentii di dirle: «Mamma, lui è Alberto Franceschini, delle Brigate Rosse, e lei è la sua fidanzata, Pippi Calzelunghe».
I ricordi sono una brutta gatta da pelare per uno che ha poca memoria.
Affiorano a caso, senza alcuna logica. Io non ricordo la data delle mie interviste. Non solo non ricordo l’anno, non ricordo nemmeno il decennio. Non ricordo il luogo, non ricordo la durata. Di nessuna intervista.
Tranne quella ad Adriana Faranda, la strafiga delle Brigate Rosse. Era l’11 settembre 2001. Facile capire perché io la ricordi, no? Le torri gemelle. Intervistai Adriana Faranda la mattina in cui gli attentatori fecero crollare la Torre Nord e la Torre Sud del World Trade Center “sparandogli” contro il volo American Airlines 11 e il volo United Airlines 175.
Passare tutto l’11 settembre con una ex terrorista a guardare e a commentare le due torri che crollavano a causa di un attentato terroristico, questo superava ogni immaginazione possibile. Eravamo a Trevignano, a dodici chilometri dalla casa di mia madre a Bracciano, nella casa dove Adriana abitava con il suo compagno, il fotografo francese Gerald Bruneau.
ATTENTATO TORRI GEMELLE 11 SETTEMBRE 2001.
Sulle colline, vista lago. Ci dimenticammo subito dell’intervista. Sbracati sul divano, annichiliti, passammo il tempo a guardare le Torri Gemelle bruciare mentre centinaia di persone morivano tra le fiamme, si buttavano nel vuoto, rimanevano schiacciate nel cemento e le torri cadevano e ricadevano e ricadevano ancora, e gli aerei continuavano a infilarsi dentro di loro e a farle esplodere centinaia di volte, in una specie di macabro videogioco delle moviole.
attentato 11 settembre 2001 16
Io lì, a contemplare il terrorismo moderno del ventunesimo secolo insieme con Adriana Faranda, la terrorista arcaica del ventesimo secolo. Io sbalordito, lei scandalizzata del livello di efferatezza cui era arrivato il terrorismo islamico. Le facevo notare che c’era un bel po’ di incoerenza in quelle sue manifestazioni di condanna.
Ma lei continuava a spaccare il capello in quattro: noi eravamo guerriglieri, questi sono terroristi. Una intervista durata nove ore: la Faranda poteva dire quello che voleva, era comunque un evento. Capita anche questo nella vita di un giornalista. Soltanto la sera riuscii a tornare a casa. Piuttosto turbato.
lanfranco pace, marco pannella, il leader di autonomismo romano riccardo tavani e jean fabre LANFRANCO PACE LANFRANCO PACE
adriana faranda adriana faranda adriana faranda