Simona Orlando per “Il Messaggero”
E’ tra i più grandi chitarristi di sempre, e tutti hanno voluto un suo assolo in un disco. Settantadue anni appena compiuti, voce ed entusiasmo da ragazzino, Jeff Beck torna oggi con il nuovo lavoro intitolato “Loud Hailer” (distribuito Warner) e il libro fotografico “BECK01” (Genesis Publications) che unisce le sue due passioni: chitarre e macchine d’epoca. Le costruisce, oltre che usarle. Una carriera brillante, tra palco e garage. «In fondo» ci dice «musicisti e meccanici sono dei matematici».
Il libro è un viaggio nel tempo, sin dagli esordi, quando sostituì Clapton negli Yardbirds, raccomandato da Jimmy Page. La santissima trinità inglese delle sei corde. Nel gruppo restò solo 18 mesi, tutti di successi: «Fu come essere risucchiato da un aspirapolvere. La prima volta che prendemmo l’aereo per l’America, pensammo che saremmo morti». L’America l’aveva sognata e disegnata a forma di Stratocaster sui quaderni.
La prima cosa che fece in California fu andare alla fabbrica della Fender, ma non poté entrare: Leo Fender non amava i capelloni. E dire che poi si meritò un modello che porta il suo nome, la Jeff Beck Stratocaster. Una carriera da applausi e zero pentimenti. Non si rammarica nemmeno di aver detto di no, quella volta a Rotterdam, ai Rolling Stones che lo volevano nel gruppo: «Avrei fatto tanti soldi ma non non era la mia musica». Preferì lavorare con George Martin ai suoi dischi da solista, aprendo la strada a discepoli come Steve Vai e Joe Satriani, si avventurò mischiandosi al jazz, hard rock, elettronica.
«Stevie Ray Vaughan suonava il Tex-Mex blues e io in confronto facevo la techno» scherza. E così moderno suona anche l’ultimo lavoro, undici pezzi che sono una osservazione preoccupata della società, tra governi corrotti e giovani imbambolati dalla tv. Drumbeat da Ibiza, funky, ballate puntellate di assoli, un paio di strumentali e un doo-wop usando il vecchio piano scordato di sua madre. La squadra è tutta italiana e in parte romana (produttore Filippo Cimatti , batterista Davide Sollazzi e bassista Giovanni Pallotti), la voce è della cantante Rosie Bones, alla chitarra Carmen Vandenberg. Un tocco inconfondibile quello di Beck, senza mai il plettro, ogni nota modulata con espressività, così melodica da poterci cantarci sopra.
Hendrix riecheggia nel disco, c’è anche qualche citazione. Perché un omaggio ora?
«E’ il mio saluto a Jimi, lo amo più che mai oggi che quella autenticità manca nei dischi. Sono tornato a registrare in stile anni ’50. Anche se l’approccio è digitale, ho scelto di non correggere gli errori. All’epoca non si poteva, i costi di studio erano proibitivi. La mattina si registrava un disco, il pomeriggio un altro.
Oggi ci si mette tre settimane solo per ottenere il suono perfetto di batteria. In ‘Loud Hailer’ le batterie sono addirittura quelle del provino. Volevamo il potere di basso e batteria elettronici ma suonati davvero».
Hendrix la riteneva il più grande chitarrista inglese. Nessuna rivalità fra voi?
«Solo grandissimo rispetto. Quando Jimi parlava, in realtà sussurrava, usava gli indovinelli e un senso dell’umorismo stranissimo. Dovevi essere un tipo attento all’ascolto, se volevi capirlo. Io non ero un chiacchierone. Non so come spiegarla la nostra comunicazione: parlavamo molto senza dirci granché».
E quando suonavate?
«Ricordo ogni secondo con lui. Veniva a vedere il Jeff Beck Group e ogni tanto si univa. Stavamo spesso insieme ma esiste una sola foto di me e Jimi. Oggi sarebbe impossibile non avere nostre immagini o registrazioni, la gente ha l’ossessione di riprendere. Io invece ho tutto in testa».
Vediamo. Daytop giugno ‘68?
«Suonammo in un centro di riabilitazione e il concerto non lo pubblicizzarono perché c’era un pubblico di ex drogati. Arrivammo lì con la sua Corvette mezza scassata e improvvisammo la jam più bella della mia vita. L’unica cosa che Jimi voleva fare era suonare. Se ci fosse una chitarra dentro Starbucks, entrerebbe per suonarla».
C’è un modo per distruggere la mitologia anni ‘60 e ’70?
«Mi spiace ma musicalmente fu davvero il periodo più eccezionale. Posso dirlo con certezza perché c’ero allora e ci sono ancora. Chi non l’ha vissuto non può immaginarlo. Sentivamo di poter fare tutto. Ma la droga era ovunque, e tutti la usavano. Non mi piaceva vedere gente fuori di testa. Usciti da ogni club, la domanda fissa era “A casa di chi andiamo a sballarci?” e la mia risposta fissa era “Io vado a casa”».
Nell’ultimo anno abbiamo perso molti maestri, da George Martin a Prince. I grandi sono nati tutti nel passato?
«Difficile fare paragoni. La musica cambia e oggi nasce soprattutto dalla tecnologia, è determinata da quanto sei bravo a premere pulsanti. Puoi fingere sempre, battere i pugni sul tavolo e farla diventare una batteria. La cosa triste è che la bravura rischia di scomparire».
Ce l’ha coi talent?
«E con la mentalità della scorciatoia. Un esempio: ho suonato un brano molto veloce davanti a mia nipote di otto anni e lei alla fine mi ha detto: «Ci deve essere un bottone per farlo succedere automaticamente». Dopo venti anni di dedizione, anzi di asservimento alla chitarra, ecco cosa mi tocca sentire».
Per Clapton Jeff Beck “sta tutto nelle mani”....
«La tecnica sta nelle mie dita, ma sono mosse dal cuore, e io posso suonare solo così».
Lei fa anche il meccanico e costruisce macchine d’epoca. Non teme di farsi male?
«Il garage è pericoloso, mica delicato come uno studio. Là sotto lavoro sodo, mi sono tagliato spesso, le cose esplodono e dovrei portare la protezione per gli occhi. Ma lo faccio da sempre e se iniziassi a preoccuparmene probabilmente mi succederebbe qualcosa di grave».
Cosa ha scoperto quando ha aperto l’archivio per BECK01?
«E’ stata una montagna russa, sono stato rapito e mi ci è voluto un sacco di tempo per scegliere le foto, ogni volta mi portavano via i sentimenti. C’è la mia casa da bambino bombardata e cose totalmente dimenticate»
Ne dica una.
«Una foto di me seduto su un divano con Bowie. Che diavolo stavamo facendo? Non ne ho idea. Credo fosse il tour Ziggy Stardust del ’73, forse addirittura il concerto d’addio»
Nel libro ci sono molti di questi episodi. Tipo quando le rubarono le chitarre.
«Facevamo un concerto a New York e corremmo via perché era scoppiata una rissa. La roba restò sul palco e naturalmente scomparvero le mie due Les Paul, lasciarono solo la batteria. So bene dove si trovano ora le mie chitarre rubate, il dilemma è se dare la cattiva notizia a chi ce l’ha».
Ci sono lettere di B.B. King e Charles Mingus.
«Mingus mi scrisse quando mi sentì suonare ‘Goodbye Pork Pie Hat’. Disse che la trovava eccezionale e non potevo crederci».
Uscirà un documentario sulla sua carriera?
«La Eagle Rock ne ha uno in lavorazione ma io voglio fare un film dal mio libro. La biografia è difficile da scrivere, non ho il tempo di batterla al computer, allora ho cominciato a prendere appunti a mano, sul bus. Però alla fine del tour ero così stanco che li ho lasciati sul sedile e quindi ora qualcuno ha metà del mio libro o lo ha già gettato nella spazzatura».
L’estate sarà in tour in America con la leggenda del blues Buddy Guy e ad agosto celebra i 50anni di carriera all’’Hollywood Bowl’. Che sorprese ci riserva?
«Ho scritto una lista dei desideri. Non andrò in ordine cronologico ma il primo piede in America l’ho messo con gli Yardbirds e quindi inizio da lì. Steven Tyler degli Aerosmith farà un paio di nostre cover, ci sarà Beth Hart alla voce, e due ore e mezza di spettacolo. Poi porto in tour ‘Loud Hailer’. Non ascolto mai i miei dischi, perché sono frutto di duro lavoro e alla fine mi danno la nausea. Per la prima volta metto un cd nello stereo della macchina e lo sento a palla. Il suono mi impressiona aldilà dei miei assoli. La mia chitarra canta, ma stavolta è più libera dietro la voce femminile»
La musica è cambiata ma il suo potere è intatto?
«Da piccolo i miei la mettevano per distrarci dalla guerra, ma sulle radio inglesi si sentivano solo le big band, allora mia sorella cambiava di nascosto e cercava il network della forze americane. E’ lì che scoprii il rock ‘n’ roll. Da allora sa farmi sentire a pezzi o alle stelle».