Fabio Chiusi per http://chiusinellarete.blogautore.repubblica.it/
Fa una certa impressione leggere l'accorato grido d'allarme sulla fine dell'utopia internettiana lanciato da Jennifer Granick al recente Black Hat 2015 e, nelle stesse ore, gli sviluppi dell'hack del mese scorso al sito di “incontri discreti tra persone sposate” Ashley Madison.
Da un lato c'è la richiesta, sacrosanta, di riacquistare la nostra “libertà di trafficare” (freedom to tinker) con la tecnica, ovvero “la nostra capacità di studiare, modificare e da ultimo comprendere la tecnologia che usiamo – e che struttura e definisce le nostre vite”; dall'altro, c'è che quello sporcarsi le mani per sperimentare e conoscere (tema caldo nel regolamento dell'industria della sorveglianza come in quello della crittografia) si risolve sempre più spesso non solo nella violazione di massa dei dettagli più intimi delle nostre esistenze private – qui si parla di preferenze sessuali e transazioni finanziarie per realizzarle – ma anche in una forma odiosa di moralismo digitale: o ti comporti bene (come diciamo noi hacker), o tutti sapranno che ti sei comportato male. Da cui una ennesima, ulteriore spinta al conformismo, alla normalizzazione dei comportamenti, e alla marginalizzazione dei "devianti".
Avid Life Media, proprietaria del sito bersagliato dal cosiddetto 'Impact Team', non era certo nota per essere politicamente corretta, o anche solo eticamente opportuna: sostiene di non promuovere l'infedeltà e insieme incita alle scappatelle; promette discrezione, e poichiede del denaro per la rimozione totale – ammesso sia vera, gli hacker sostengono il contrario – dei propri dati dal sito; quanto all'immagine di sé, i suoi comunicatori non si sono fatti alcuno scrupolo nell'utilizzare la foto di una modella in carne per una pubblicità che recitava, dopo Halloween: “Tua moglie ti ha spaventato, stanotte?”; un modo nemmeno troppo velato di suggerire, scrive Jezebel, che le persone sovrappeso mettono paura, e che dunque si possono tradire. "A new low", secondo AdWeek.
Ma niente di tutto questo falsifica il suo ultimo comunicato: quello subito “non è hacktivismo, ma criminalità”, perdipiù perpetrata da delinquenti che “si sono autonominati giudici morali” per “imporre la loro personale nozione di virtù alla società intera”.
Una forma nefasta di “cyber-vigilantismo”, insomma, in cui gli hacker vanno oltre la veste abituale di chi protegge la sicurezza informatica violandola, e mettendo così a nudo – anche con gesti eclatanti e in violazione della legge – l'ipocrisia dei soggetti (pubblici e privati) che invece la promettono, o peggio la assicurano, ai loro utenti anche quando non potrebbero.
Qui, nelle parole dell'Impact Team che ha rivendicato il gesto, si tratta di punire la “stupidità” dell'azienda e degli utenti che vi si sono rivolti per un servizio definito una “frode” e un “inganno”: il 90-95% degli iscritti sarebbe in realtà di sesso maschile. Ma, a quanto emerge dalla rivendicazione, poco importa si sia consumato l'adulterio: basta il pensiero, il tentativo.
Ed è proprio questo moralismo ad avere trovato d'accordo svariati commentatori sui social network, soddisfatti nel vedere castigati gli immorali, gli abietti, i traditori del vincolo coniugale. “Tutti i tuoi dati più intimi sono in rete? Ben ti sta”, si legge in sostanza su Twitter.
Ma è una posizione straordinariamente miope, che testimonia – per l'ennesima volta – proprio i valori che hanno condotto (o lasciato condurre) la rete al disastro di sorveglianza, controllo e manipolazione propagandistica denunciato da Granick con la stessa urgenza del nuovo 'Cluetrain Manifesto' scritto nei mesi scorsi da David Weinberger e Doc Searls.
Se siamo nell'“età dell'oro” della sorveglianza è anche (soprattutto?) perché continuiamo a sottovalutare il valore della privacy, anche quando appaiono nella memoria collettiva e imperitura del web i dettagli più intimi di decine di milioni di perfetti sconosciuti, perfettamente innocenti, senza che quei dati abbiano alcun reale valore di cronaca. Perché sì, ci sono 150 profili creati con mail del governo UK, migliaia di quello dell'esercito e dell'esecutivo USA e svariati di quello francese, ma il sito non verificava appartenessero davvero a chi dicevano di appartenere.
Dunque è impossibile sapere con certezza se per esempio Tony Blair fosse un utente del servizio oppure, come decisamente più probabile, qualche buontempone abbia usato il suo indirizzo di posta elettronica.
Prima di esultare per il vizio espiato, dunque, dovremmo fermarci a riflettere su cosa significhi perseguire a questo modo i “viziosi” online. “Il leak subito da Ashley Madison”, scrive il Washington Post, “è molto più che l'esposizione al pubblico ludibrio dei casanova”.
Gli appartenenti all'esercito USA reperiti nei dieci gigabyte di materiale apparso in rete, per esempio, potrebbero essere puniti con un anno di isolamento e la perdita della pensione; e non mancano le testimonianze di chi ha usato il servizio da paesi non democratici, che puniscono duramente l'omosessualità e l'adulterio. Per un governo repressivo che volesse controllare, basterebbe usufruire di siti come ashleymadisonleaked.com, in cui i dati di tutti e 37 i milioni di utenti messi a nudo sono facilmente reperibili in formato navigabile,searchable (quando il sito funziona).
The Awl lo scrive benissimo: “siamo in un territorio inesplorato, in termini di costi personali”, perché l'hack ad Ashley Madison è il primo di così larga scala – quello diqualche mese fa ad Adult Friend Finder era di dieci volte inferiore, in proporzione, e senza dati finanziari – che mette in evidenza cosa significhi davvero vedere i propri segreti sbattuti in pubblico. “Non sono sicuro che ci si stia rendendo conto della portata” della vicenda, scrive John Herrman parlando di un evento “importantissimo”, che costringerà “milioni di vite a cambiare in profondità” (basti pensare alla quantità di battute presenti in rete sull'iperattività degli avvocati divorzisti, nelle prossime ore).
Uno sbocco possibile è una società come quella immaginata da Rebecca Nicholson sulGuardian, del “post-imbarazzo”, in cui tutti abbiamo di cui vergognarci online e dunque nessuno ha di che vergognarsi online. Ma è uno sbocco indesiderabile, perché – lo sappiamo – il mito della “casa di vetro” mal si concilia con una qualunque idea di democrazia; anche quella imperfetta che stiamo perdendo, un giustiziere digitale dopo l'altro.