GENERE NO LIMITS - GIACCA E CRAVATTA ADDIO E PIZZO ROSA PER TUTTI: A FIRENZE E A MILANO UOMINI IN VESTI FEMMINILI (E DONNE PRIVE DI IDENTITA’): LA MODA ONDEGGIA TRA I GENERI- CI STA BENE CHE GLI UOMINI VESTANO CON LE INSEGNE DELLA FEMMINILITÀ?

Fabiana Giacomotti per “il Foglio”

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Fuori dal capannone, il sole è allo zenith. Stampa e compratori invitati alla sfilata collezione uomo estate 2016 di Gucci, a chiusura di una stagione che, da Firenze a Parigi, ha azzerato i codici di due secoli di abbigliamento borghese e di rassicuranti modelli maschili rimettendone in discussione perfino l’identità, addio giacca e cravatta, avanti shorts di pizzo rosa e colletti smerlati, riemergono dal buio degli sterminati magazzini stile liberty della Dogana dell’ex scalo Farini di Milano riaccolti, quasi raccolti dai ragazzi del servizio d’ordine che invece e ancora indossano una semplice camicia bianca immacolata sotto il completo nero rigoroso e asciutto.

 

Giornalisti e compratori, siamo tutti un po’ frastornati: ancora uomini in vesti, stili e modi femminili; ancora donne dai caratteri sessuali pressoché annullati. Più che abbigliamento agender, tema di stagione e di quest’ultimo anno, uno scambio in totale libertà di modi di essere e di rappresentarsi.

 

Genere no limits: senza divise, senza insegne e senza segni riconoscibili, ma anche senza identità definite, che è il grande tema attorno al quale la cultura occidentale dibatte ormai da anni e per il quale non è riuscito a trovare una risposta comune e condivisa, che è appunto il suo grande problema e di cui questi messaggi ambigui nell’abbigliamento sono la più plateale dimostrazione.

GUCCI MILANO MODA 2015GUCCI MILANO MODA 2015

 

L’uomo occidentale forse ha davvero bisogno di un segno identitario nuovo anche nel vestirsi, ma non sa risolversi a identificarne uno nuovo davvero. Nel frattempo, svilisce quelli che ha già, perché nulla appariva più ridicolo dei finti hipster vestiti di rosa geranio che circolavano per le strade di Firenze durante Pitti Uomo, oppure va esplorando scambi e incarnazioni di un genere nell’altro.

 

Talvolta, come nel caso del direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, con uno slancio ostinato e commovente, ma forse senza tutti i supporti necessari per trasformare questo impegno in una bandiera condivisa.

 

Se lo scorso gennaio gli uomini in camicia di chiffon col fiocco, gonna pantalone e barretta fra i capelli mandati in passerella da Michele potevano infatti ancora rappresentare uno svirgolo, uno iato, una presa di distanza dagli azzimati cafoncelli dell’era creativa precedente, le Blanche Dubois en travesti che hanno appena calcato il cemento del capannone nell’ultima periferia di Milano, tallonate da un gruppetto di epigoni di Sasha Distel,

 

ma con la blusa di Brigitte Bardot, hanno rappresentato una dichiarazione di indipendenza o anche, come suggeriva la farfalla azzurra stampata sull’invito alla sfilata – fra il lepidottero blu, i due calabroni simbolo della bizzarria della natura e il cartiglio di ispirazione vittoriana sul retro, con una teoria infinita di doppi volti incoronati da Clio, la musa del canto epico – il segno di un’avvenuta incarnazione.

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Da uomo a donna a zero a tutto. Il Brucaliffo che ha trovato la volontà per trasformarsi alla faccia delle puntualizzazioni di Alice. Chiunque sia la musa ispiratrice di Michele, che dice di “osservare solo il mondo che lo circonda” e quando parla con la stampa rievoca le lotte della madre in nome della minigonna prima e del pantalone poi, ha un curriculum impeccabile e, almeno dal suo punto di vista, una visione completa del tema.

 

Alfa e omega del genere, un passo oltre le incarnazioni della mitologia che però, nell’epoca del web e della diffusione virale di qualunque messaggio, assumono un peso e un significato ben diversi.

 

Per dirla tutta e in parole povere, Gucci ha annullato per la terza volta in un anno nello styling di una collezione le differenze di genere, concedendo a certi ragazzetti allampanati grembiulini verginali e mezzepunte da ballo con i lacci alla caviglia incrostate di paillette, ma non l’ha trasformata in una presa di posizione ufficiale.

 

L’amministratore delegato Marco Bizzarri si è limitato ad affermare che “il marchio ha recuperato il proprio codice stilistico con uno stile più contemporaneo”, che potrebbe anche sembrare una pura e semplice operazione di marketing per ridare allure a un marchio appannato da anni di massificazione, non fosse che circoscrivere quanto si è visto in una nozione di contemporaneità, senza inquadrarla e senza definirla, equivale ad accendere una miccia in quella caverna popolata di spettri e di volontà irresolute che è il mondo occidentale, dove ogni parola spesa male, o non spesa, rischia di spegnersi in un refolo freddo o di trasformarsi in un’esplosione.

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Michele è certamente onesto nel suo sentire, ma il suo pensiero avrebbe bisogno di un endorsement più forte, più alto e più sicuro per non ridursi a un cicaleccio estetico, a una marea di titoli superficiali, di affettuosità di facciata o di scrollate di spalle.

 

E quell’endorsement non sembra pronto ad arrivare. Non qui, non ora e sebbene sia evidente a tutti che la divisa della “grande rinuncia maschile”, pantalone, giacca e cappello parimenti neri e tutti i loro derivati emersi dalla mattanza dell’Ancien régime, sia ormai una crisalide più vuota e più secca della farfalla da cui sono emerse le figurette della passerella di Michele.

 

I codici dell’abbigliamento maschile occidentale hanno bisogno di una riscrittura: a dar retta allo storico della Sorbonne Alain Corbin, avrebbero forse già potuto averla dopo il 1850, quando la volgarizzazione dei concetti di psichiatria e psicanalisi imposero l’esistenza di sessualità multiple, aprendo la via alla nozione di identità e di orientamento sessuale.

 

Adesso, la necessità di un nuovo o di molteplici codici identitari occidentali si rende evidente non solo per offrire una risposta a queste esigenze, quanto per evitare un’ulteriore banalizzazione della figura maschile rispetto a quella a cui si è assistito fra gli stand degli espositori di Pitti, un’avvilente parata di manichini in giacchette sgargianti e di volgari derivazioni del dandy, figura in origine rigorosa fino al puntiglio.

 

Gli estetismi femminei visti in questi giorni, dai farfalloni amorosi in giacca rosa di Pitti Uomo ai “post-modesti” in pantaloncino e calza scesa di Miuccia Prada (“il post ormai non si nega a nessuno” sghignazza Roberto D’Agostino) non hanno nulla a che vedere nemmeno con la macchietta dell’esteta decadente, spendaccione e inutile inventato da Oscar Wilde alla fine dell’Ottocento. Visti tutti insieme, rendono però evidente il progressivo tramonto di un modello maschile, il bravo borghese dedito al lavoro e alla famiglia o il suo fratello minore un po’ briccone e vanesio, il dandy o per meglio dire il suo antesignano più scioccherello e colorato, il fop.

 

GUCCI MILANO MODA UOMO 2015GUCCI MILANO MODA UOMO 2015

Come una cartina di tornasole, queste mademoiselle de Maupin incerte fra la gonna e il foularino al collo evidenziano appunto la progressiva inconsistenza della divisa maschile borghese con cui abbiamo cercato di colonizzare il mondo dalla Restaurazione in poi, riuscendovi solo in parte, per incorporare invece via via elementi da culture, modi e usanze altrui, la ciabatta africana sotto il gessato; la t-shirt sotto il blazer, il nehru indiano al posto della giacca tre bottoni, senza arricchirci in senso, cultura e coscienza, ma solo smarrendoci.

 

Accumuliamo e togliamo nella pura apparenza. Ci manca insomma un nuovo linguaggio, una nuova simbologia forte, decisa e precisa e, per molti aspetti, gli efebi bruttarelli e cifotici di Gucci hanno più da spartire con i combattenti “no banks” di Vivienne Westwood in pantaloni a cavallo basso e i loro petti muscolosi offerti a usbergo contro le mosse della Banca centrale europea guidata da Mario Draghi che con certi sartorelli di quart’ordine di cui ci sono state magnificate per giorni le cuciture termosaldate, quasi fossero un miracolo della tecnologia e non soprattutto un grande risparmio di denaro nella manifattura.

 

Se avessimo il coraggio di sostenerli, i messaggi di efebi e combattenti invece di far finta di nulla e di tirare avanti con tutte quelle giacche bianche e celesti fintamente sartoriali, sarebbe un bene o almeno un messaggio chiaro, perché le truppe lanciate contro le élite occidentali incerte perfino su cosa indossare la mattina hanno, al contrario, simboli precisissimi e un apparato identitario potente.

 

SFILATA GUCCISFILATA GUCCI

C’è un contrasto flagrante fra il linguaggio poco assertivo con cui a Pitti e sulle passerelle di Milano e Parigi sono salite rappresentazioni sempre più ondivaghe del maschile, fra non detti e strizzatine d’occhio, e la vitalità che distingue i riti pur orrendi e la stolida ferocia della gang transnazionale che ha colpito di recente anche a Milano, la Mara Salvatrucha, con i suoi elementi distintivi e i suoi tatuaggi rituali.

 

A noi nipoti di Voltaire e di Montesquieu sta bene che gli uomini vestano con le insegne della femminilità? Quali sono i nostri limiti, qual è il perimetro del campo in cui giochiamo? Diciamolo, ma diciamolo forte, una volta per tutte, e senza fraintendimenti, perché altrove il marketing del segno vestimentario, che è un segno fragoroso, ha una “unique selling proposition” molto netta e sa venderla benissimo.

 

Senza un pensiero affermativo e un terreno culturalmente favorevole, non può che finire nel nulla il messaggio degli Alessandro Michele o del pur coltissimo Arthur Arbesser con la sua continua elaborazione della Wiener Werkstatte di cui ormai conosciamo la storia forse in cinquecento, facciamo i generosi e diciamo mille in tutto il mondo, mentre la semplice divisa dei guerriglieri dell’Isis, giacca, bandierina e bandana nera avvolta attorno al capo,

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è diventata simbolo di aggregazione certo terroristica ma così trasversalmente efficace che qualche mese fa, a una festina milanese in costume, il figlio decenne di un’amica pubblicitaria, vestito da pirata salgariano con le sue brave braghe a sbuffo, le tiracche e tutto il resto, ma interamente in nero, è stato scambiato dagli amichetti per un “guerrigliero dell’Isis” e d’altronde avrebbe potuto anche esserlo, se si considera che al merchandising del terrore si può accedere comodamente dal web e che le cuffiette per neonato sono oggettivamente carine (fabbricate nello stesso est europeo che produce certe belle t-shirt in vendita nelle strade di Roma, pare, fra l’altro).

 

PradaPrada

Se è vero quanto scrive Bruno Ballardini nel suo recentissimo saggio sul “marketing dell’apocalisse”, e cioè che il Califfato di al Baghdadi usa le stesse tecniche di proposizione e di affermazione del suo marchio di una multinazionale del largo consumo, quindi gli stessi modelli di mercato dell’occidente che dichiaratamente combatte (“questa è una guerra di mercato fra chi riuscirà a imporre il proprio pensiero unico”, sintetizza:

 

sia “Occidente” sia “Isis” sono due prodotti estremi di uno stesso modello), all’affermazione di una nuova coscienza identitaria occidentale non può bastare il gruppetto di hipster con le barbette inopinatamente curate, il nodino di capelli lunghi fissato in cima al cranio, le giacche in rasatello di cotone color geranio e i mocassini indossati senza calze, accozzaglia di incertezze, un po’ di qui e un po’ di là, che si sono visti agli angoli delle strade in questi giorni di sfilate.

 

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Nulla appariva più incongruo del confronto fra la tirata del sindaco di Firenze Dario Nardella sul rapporto fra moda e arte condotta sotto i virilissimi affreschi della battaglia di Marciano del Vasari che ornano il salone dei Cinquecento di palazzo Vecchio alla presentazione delle giornate della moda, tutto un rimando fra moda e spirito di corpo e con il presidente del Centro di Firenze per la moda italiana Stefano Ricci che annuiva soddisfatto perché la sera prima aveva organizzato una rievocazione del calcio storico fiorentino e della celeberrima partita di sfregio a Carlo V che assediava la città, con la massa di ragazzetti autoreferenziali in giacca e pantaloncini color pastello che per quattro giorni l’ha invasa diffondendo ovunque in tempo reale milioni di selfie e mangiando non metaforiche brioche.

 

PRADA PRIMAVERA ESTATE 2015PRADA PRIMAVERA ESTATE 2015

Stiamo vivendo un nuovo clima da dissolvenza del modello culotte courte, dell’aristocrazia avulsa dalla realtà che guarda il mondo dagli occhialini incrostati di perle e non so se qualcuno di noi abbia voglia di rivivere la fase successiva, e cioè la ghigliottina montata in place de Grève. Se vogliamo tenerci le nostre braghe e le nostre camicette rosa, ci converrebbe difenderle da subito.

 

 

 

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