Cinzia Alfè per www.dissapore.com
Foto di Tommaso Ausili
Animali che si cibano dei propri escrementi, e costretti in spazi così ristretti da non riuscire nemmeno a muoversi. Maialini castrati a freddo senza anestesia e a cui vengono spezzati i denti.
Polli impazziti ammassati l’uno sull’altro e che si beccano a vicenda in atti di auto-cannibalismo. Conigli costretti a vivere tutta la loro vita su grate che ne riducono le zampe a moncherini sanguinanti, causando la morte di circa un terzo di loro prima di arrivare macellazione.
Queste sono alcune delle situazioni –nemmeno le più estreme– descritte da Giulia Innocenzi nel libro “Tritacarne”, edito da Rizzoli, in questi giorni in libreria, che ha per tema le spaventose condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi italiani.
Libro che ha richiesto all’autrice oltre un anno di lavoro e innumerevoli visite “in incognito” in molti allevamenti, molte delle quali al limite della legalità, per verificare di persona se anche negli allevamenti italiani fossero riscontrabili gli stessi, crudeli trattamenti di quelli americani, descritti nel 2009 da Jonathan Safran Foer nel suo libro “Se niente importa”, che ha rappresentato per la conduttrice televisiva la molla, il punto di partenza.
Del libro hanno scritto tra gli altri Camillo Langone sul Foglio e Andrea Scanzi sul Fatto Quotidiano con opinioni che più distanti non potrebbero essere.
Per Langone: Il libro contro gli allevamenti intensivi di Giulia Innocenzi, tra criptocomunismo, panteismo e altri deliri, è l’emblema di una nuova religione che all’uomo antepone la bestia e sta al lettore decidere se la “B” dev’essere minuscola o maiuscola.
Per Scanzi: Il libro è un viaggio negli allevamenti horror dove Giulia Innocenzi racconta le torture a cui vengono sottoposti gli animali, mostrando tutta sofferenza che ci ritroviamo nel piatto e le ragioni per smetterla di mangiare carne.
Figlia di un cacciatore, spensierata consumatrice di bistecche fino a pochi anni fa, la collaboratrice di Michele Santoro, in seguito alla svolta vegetariana causata dalla lettura del libro di Foer, si è intruppata nell’ormai noto copione degli ambienti radical-vegani, con tanto di rituale linguaggio a base di “cadaveri nel frigorifero con la testa reclinata e penzolante tra sedani e pomodori”, come ha raccontato ieri a Radio24 (vale a dire, più semplicemente, quaglie e fagiani cacciati dal padre degenere).
Ma per quanto metodi e linguaggio possano risultare non così condivisibili, ed essendo la tutela della proprietà privata – sì, anche quella degli allevatori – ancora un principio fondamentale garantito e riconosciuto della nostra Costituzione, il libro è comunque un vero pugno nello stomaco, quello stesso stomaco che, a detta di Giulia Innocenzi, dovrebbe essere “foderato di ghisa” se, dopo la lettura si riuscisse ancora a cibarsi di arrosti e bistecche.
Metodi terrificanti e trattamenti a dir poco crudeli sembrano infatti essere all’ordine del giorno negli allevamenti, da quanto si può leggere in “Tritacarne”, come la pratica, tuttora in uso, della castrazione a mano e senza anestesia:
“È fatta principalmente per una questione di gusto della carne, e cioè per evitare ‘l’odore di verro’, dovuto a un ormone che i maiali sviluppano in pubertà – scrive Innocenzi.
I maialini sono afferrati per le zampe a testa in giù e immobilizzati. Un operatore taglia lo scroto del maiale con uno strumento che assomiglia al bisturi che recide i testicoli. È una pratica molto dolorosa, ma se il maialino non ha superato i sette giorni di vita, può essere fatta senza anestesia”.
Pratica che si potrebbe tranquillamente sostituire con altri metodi meno cruenti, ma evidentemente più onerosi, e non considerati evidentemente opportuni per dei semplici maiali.
Continua infatti l’autrice: “Esistono alternative alla castrazione, come per esempio il vaccino che inibisce la formazione dell’ormone che causa l’odore di verro, utilizzato già in 63 Paesi. Solo Italia, Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia non si sono ufficialmente impegnati a mettere fine a questa pratica”.
E non finisce certo qui : i testicoli così recisi finiscono nello stesso recinto dove i maiali trascorrono la loro triste vita, insieme ai loro escrementi, diventano parte integrante della loro “dieta”: “un’indagine compiuta in diversi allevamenti –continua Innocenzi– ha mostrato come gli operatori buttino i materiali organici direttamente nel recinto dei maiali, che poi se li mangiano. Spesso proprio nel recinto della mamma scrofa, che assiste e non può fare niente”.
Ma non solo: i piccoli maiali entro i sette giorni di vita sono sottoposti ad un’ulteriore tortura, sempre, ovviamente, effettuata senza anestesia :“per evitare che i suinetti creino ferite ai capezzoli delle scrofe durante l’allattamento, ai cuccioli vengono troncati i denti. La punta dei denti viene rotta con una pinza.
Anche questa pratica è permessa senza anestesia, se effettuata entro i primi sette giorni di vita dell’animale”.
Pratiche raccapriccianti, che hanno fatto scrivere al premio Nobel per la Letteratura Isaac Singer, sopravvissuto tra l’altro ai campi di concentramento, che “ciò che i nazisti hanno fatto agli ebrei, gli umani lo stanno facendo agli animali”.
michele santoro giulia innocenzi
Anche volendo esaminare la questione sotto un aspetto più egoisticamente di convenienza umana, queste condizioni sono deleterie anche per noi e per l’ambiente in cui viviamo, perché le emissioni provenienti dagli allevamenti intensivi contribuiscono all’inquinamento atmosferico in misura maggiore degli stessi trasporti, ma più prosaicamente, anche per il fatto che le nostre bistecche risulteranno meno sane a causa non solo delle condizioni di vita degli animali.
E del conseguente necessario bombardamento di medicinali e antibiotici per debellare malattie e batteri dovute a condizioni igieniche quantomeno “precarie”.
Insomma, se questo è il prezzo per gustare la nostra bistecca, se non siamo in grado di procurarci il cibo con metodi meno cruenti a spese degli animali, offrendo loro condizioni di vita dignitose –come avviene nell’esemplare macello di North Springfield, nel Vermont, dove gli animali, come vi abbiamo raccontato, trascorrono una vita “cruelty free” fino alla fase finale – se neanche le telecamere potessero rivelarsi utili a far cessare tali pratiche (telecamere già presenti, tra l’altro, nei macelli francesi), allora sarebbe davvero il caso di ripensare daccapo il modello degli allevamenti intensivi.
Non occorre infatti essere dei “nazivegan” incalliti per pretendere condizioni di vita e di morte dignitose per gli animali che trascorrono una dolorosa esistenza negli allevamenti per garantirci la nostra alimentazione da onnivori.
Basterebbe semplicemente restare umani.
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