1. LA BALLATA DEL CRITICO TV - QUARTETTO CETRA CON LELIO LUTTAZZI - VIDEO
2. LA VITA AGRA DEL CRITICO TV CRITICATO
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera"
La critica televisiva non ha mai goduto di buona reputazione, anche quando a firmarla c’erano intellettuali dello spessore di Achille Campanile, Sergio Saviane, Beniamino Placido. Colpa forse della «morbosa suscettibilità» dei personaggi televisivi, di un atteggiamento di superiorità e di sprezzo dei medesimi, persino della commossa solidarietà da parte dei colleghi (quelli che si occupano di libri, di teatro, di cinema...) per un lavoro affondato «nella poltiglia stomachevole delle giornate tv».
Sta di fatto che non di rado qualcuno usa il video per avversare chi è di diverso parere. Non è cosa nuova: «Non so se la televisione dia alla testa a quelli che appaiono sui teleschermi o se si crei in costoro una specie di psicopatia o di ipersensibilità morbosa. Ormai è diventato un fatto consueto polemizzare dal video con giornalisti che si occupano di televisione e addirittura servirsi della televisione per fatti personali». Era il 1959 e Campanile era stato insultato in video da Walter Chiari.
Sull’«Europeo» lo scrittore argomentava: «L’attore, finché è sul palcoscenico, ha soltanto il diritto di recitare, male o, se gli riesce, bene. Se vuol replicare, lo faccia pure, ma in altra sede e perfino nello stesso giornale che lo ha attaccato o in un qualsiasi altro giornale; o, se preferisce, a bastonate per la strada o sfidandolo a duello o dando querela». E non c’era ancora Internet a creare altre imprevedibili occasioni di replica, a favorire insolenze con la protezione dell’anonimato.
Placido, per rispondere agli insulti di Gianfranco Funari o di Vittorio Sgarbi, ragionava così: «Non è affatto vero che gli autori di cinema, di teatro, di televisione protestino sempre. Protestano soltanto in presenza di un giudizio critico totalmente o parzialmente negativo. Se il giudizio del critico cinematografico, teatrale o televisivo è invece positivo, non protestano affatto. Anzi. Smettono addirittura di pensare quel che sempre pensano. E talvolta scrivono. Cioè che il critico è un autore mancato, un eunuco che contempla con invidia e giudica con malanimo, il loro fecondo atto creativo».
Quando Placido è morto, Sgarbi si è sentito in dovere di rendergli l’onore delle armi: «Mi trovai cucinato dai critici più rappresentativi e istituzionali, approdati dopo anni di straordinario impegno intellettuale alla funzione ancellare di osservatori della televisione. Un divertimento più che un mestiere, ma sempre più impegnativo man mano che la televisione (e la carriera libertina di Berlusconi lo ha dimostrato) diventava più importante per la politica e la società. E man mano che la televisione cresceva nell’offerta e nell’insidia, più ragguardevoli e impegnati erano i suoi commentatori… Cominciò così (…) un ininterrotto dialogo a distanza con Beniamino Placido, il quale mi aspettava al varco per coprirmi di contumelie. E io, per dargli soddisfazione, gli rispondevo commentandole nelle mie trasmissioni».
Ma lo scontro più curioso resta certamente quello fra Sergio Saviane e il Quartetto Cetra. Il Quartetto Cetra? Ma nei loro show, il tratto distintivo non era un insieme di classe, di professionalità, di ironia? Sì, è così. Ma questa è la sorprendente storia di uno scambio di scortesie. Quando si pensa alle critiche di Saviane si pensa soprattutto ai rapporti che la tv e la politica allora (allora?) intrecciavano.
È stato infatti il primo a capire quanto la Rai fosse una sorta di appendice della politica e si è applicato con totale dedizione e inventiva linguistica a tracciare il più ridicolo bestiario della storia patria: urogalli, mezzibusti, velinari, piantoni della forbice, becchini «col risvolto umano». In realtà recensiva tutto, anche i quiz, i programmi di varietà, Renato Carosone, Paolo Panelli, Walter Chiari e altri.
Nel maggio del 1962 sull’«Espresso», tra una recensione di Alberto Moravia su Jean Renoir e una di Sandro De Feo su Catherine Sauvage, esce quella sul Quartetto Cetra: «Da martedì 8 maggio sul secondo canale appaiono ogni settimana sorridenti e giulivi in una tuta con spalline, anche i componenti del Quartetto Cetra: Felice Chiusano, Lucia Mannucci, Virgilio Savona e Tata Giacobetti. Sono persone di mezz’età, uno ha la pancia ed è calvo, il più lungo è miope e porta gli occhiali, il loro compito è facile: devono raccontare la storia del quartetto alla televisione…
È giusto anzi che i Cetra abbiano la loro pubblicità sui teleschermi e guadagnino la loro parte di milioni. Tanto più che si tratta di uno spettacolo a puntate di poco impegno e di poca fatica in cui tutto lo sforzo si concentra in un breve riassunto in versi dei 20-22 anni di esistenza del Quartetto, (…) una trasmissione che fa venire le vertigini alle persone civili ma che secondo i dirigenti televisivi dovrebbe rappresentare tutto ciò che di meglio esiste oggi sulla piazza per ottenere il favore di un certo pubblico; uno show di divi della canzone con trovate di ripiego che la Rai-Tv tiene di riserva per riempire gli spazi vuoti della produzione o per buttare sul tavolo nei momenti di magra».
E poi ancora: «Sono sempre gli stessi questi cantanti-mimi tuttofare, travestiti da pagliacci, sguardo attonito, bocche sorridenti, movenze dolciastre, ancheggiamenti, sbavature di parodie; il loro repertorio è sempre lo stesso, i titoli delle canzoni parlano da soli: La signora del leon, Il visconte di Castelfombrone , Mister Paganini che i Cetra hanno tradotto qualunquisticamente in La leggenda di Radames , ecc.».
Il giudizio negativo sui Cetra appare un po’ grossolano; del resto, il loro repertorio non era certo nelle corde di Saviane. Ma, come ci ricorda Nicolás Gómez Dávila, «il critico formula giudizi impersonali solo quando è venduto». Come si sono vendicati i quattro? Con elegante perfidia.
Nel 1964, nel corso di Teatro 10 (quello della prima edizione, condotta da Lelio Luttazzi; la seconda sarebbe andata in onda nel 1971) mettono in scena una canzone, La ballata del critico di Savona e Giacobetti (visibile su Corriere.it).
Ecco il testo:
«Aveva studiato, poi s’era laureato e un noto quotidiano come critico lo aveva contrattato per fargli guardare la televisione e fare di ogni trasmissione un’esauriente recensione. E allora lui con tanto scrupolo si impegnò.
«Tutte le sere chiuso in casa, tutte le sere, tutte le sere guarda un programma di canzoni, guarda Bongiorno o la Vanoni, guarda il romanzo sceneggiato. Anche se non gli va. Ora la sera non può uscire, mai con nessuno, mai con nessuno, deve vedere Tv7, Jonny Dorelli o Studio Uno e la Tribuna elettorale anche se non gli va.
«Ogni sera la sua ragazza non faceva che brontolar, brontolar ed invano gli amici gli dicevan: “Vieni con noi al bar”. Lui non poteva farci niente, era fremente, era furente e si doveva sorbettare i quattro Cetra o la Valente e s’incupiva lentamente essendo costretto a star rinchiuso a casa a criticar.
«Nei primi due mesi, con modi cortesi lui fece delle critiche giulive, moderate, comprensive ma dopo tre mesi con frasi scortesi cominciò a parlare male pure del telegiornale, poveretto proprio non ne poteva più.
«Tutte le sere chiuso in casa (idem)…
«E così inesorabilmente, lentamente lui deperì, deperì, e nessuno sapeva dire niente sul mal che lo colpì. All’ospedale provinciale venne portato, ricoverato, ed il suo vice del giornale era allarmato, preoccupato. Dopo un consulto generale, questo il responso fu: era impazzito di tivù, tivù, tivù, tivù».
Insomma con la complicità di Luttazzi, avevano dato finemente del matto al critico televisivo, senza neanche nominarlo. Demente, squilibrato, malato, ricoverato. Oggi succede di peggio, ti danno del deficiente davanti a milioni di persone, come se niente fosse.
concorso 26 motivi per fare arte vittorio sgarbi 5
Aveva ragione Placido: «Siccome si pensano moltissimo, gli autori; siccome hanno una altissima considerazione di se stessi e del loro lavoro, si meravigliano che la medesima considerazione non sia condivisa ipso facto dai critici. E ti sciorinano davanti con inesausta facondia, se ti acchiappano per telefono, le buone intenzioni che hanno investito nella loro ultima opera: letteraria o televisiva che sia. Dimenticando che di intenzioni per l’appunto si tratta (e nobilissime: chi lo mette in dubbio?) ma non di risultati; non ancora. Gli autori, insomma, ai quali vorrei rinnovare qui il mio profondo, sincero rispetto, hanno una certa tendenza a giudicarsi da soli».