Marco Cicala per il Venerdì – La Repubblica
In Comizi d’amore, il documentario del 1965 sulla sessualità degli italiani, Pier Paolo Pasolini gli chiese se nella vita intima si fosse mai lasciato tentare da qualche forma di trasgressione. Quasi ottantenne, Giuseppe Ungaretti rispose: «Che cosa vuole, io sono un poeta... Quindi incomincio col trasgredire tutte le leggi facendo della poesia... Ora sono vecchio e allora non rispetto più che le leggi della vecchiaia, che purtroppo sono le leggi della morte». Parole tombali. Però il vegliardo mentiva. O peccava di falsa modestia. Perché in fatto di passione l’inverno della sua vita fu abbastanza vorticoso da sbriciolare come uno squallido cliché l’equazione vecchiaia = pace dei sensi.
A riprova le circa quattrocento ardentissime lettere inviate alla giovane poetessa italo-brasiliana Bruna Bianco tra il ‘66 e il ‘69. Se ne conoscevano soltanto pochi stralci, adesso escono al completo da Mondadori, a cura di Silvio Ramat. Vampe e acciacchi senili, viaggi, onori da star, riflessioni – qua e là velenosette – su letteratura, arte, musica, società, politica... Nel nubifragio di epistole – che nei momenti di massima esaltazione decollavano al ritmo di due al giorno – c’è dentro tutto il centauro Ungaretti: per metà sommo poeta della concisione e per l’altra affabulatore torrenziale.
Con Bruna Bianco si conobbero a San Paolo del Brasile nell’estate ‘66. Lei aveva 26 anni, lui oltre mezzo secolo di più. «Finiva agosto. Dopo una sua conferenza all’Hotel Ca’ d’Oro mi avvicinai trovando il coraggio per consegnargli una busta con le mie poesie. Bruttissime» sorride Bruna ricevendomi nella casa di Pietra Ligure dove passa le vacanze. È un’affettuosa signora con un fisico asciutto da maratoneta. Oggi ha più o meno la stessa età del poeta all’epoca. Continua: «Ungà mi invitò immediatamente a colazione. Rifiutai. Lui ripartì per Rio. Doveva restarci dieci giorni. Ce ne ne rimase solo tre. Una mattina, arrivando in ufficio, mi dissero che aveva chiamato una ventina di volte. E adesso il telefono squillava di nuovo». Si rivedono. In Dialogo, breve raccolta scritta insieme alla sua musa, Ungaretti avrebbe ricordato quei momenti come un’epifania erotica: «Sei comparsa al portone/In un vestito rosso/ Per dirmi che sei fuoco/Che consuma e riaccende». Lei lo scarrozza in auto per la megalopoli. Finiscono in un parco: «Era di lunedì/Per stringerci le mani/E parlare felici/Non si trovò rifugio/Che in un giardino triste/Della città convulsa».
Visiteranno anche la tomba di Antonietto, il figlio del poeta morto ragazzino nel ‘39, d’incanto li vedi scagliare via le grucce, la carrozzella per scapparsene lontano zompettando ilari. «Abbandonò i bastoni, smise di camminare curvo» racconta Bruna.
«Cambiò perfino abbigliamento. Era sempre in giacca e cravatta. Elegante come un gentleman, profumato come un bebè». Ungà regredisce all’adolescenza. A quando «innamorato... andavo fuori di casa, correvo per le strade, telefonavo
senza motivo a gente che cascava dalle nuvole... Aprivo un libro e lo richiudevo...
Prendevo un foglio di carta, e ci facevo, senza accorgermene, scarabocchi... ero in uno stato di nervosismo che m’impediva di camminare e di stare fermo». Solo la morte riuscirà a fermarlo. Ultracinetico,
eterno nomade, nella corrispondenza lo inseguiamo da Venezia a Palermo, da Roma a Parigi, da Londra a Tel Aviv. Per due volte raggiunge l’amata in Brasile, per due volte lei lo ritrova in Europa. Ungaretti riattacca pure con gli scarabocchi. Tutte scritte con inchiostro verde («Sono superstizioso, il verde è la speranza»), le lettere sono spesso condite da ghirigori, svolazzi, ricamini amorosi. Le sfogli fra tenerezza e un filo di imbarazzo. Sono rimaste chiuse in una cassapanca per cinquant’anni. Perché tirarle fuori solo adesso? «Ero frenata dai pregiudizi. “Ma che combineranno quei due?” malignava la gente. E poi la Bruna di allora era morta, sepolta, finita anche lei in quella cassapanca. Solo pochi anni fa ho deciso che era tempo di riaprirla» dice la Bianco. È nata a Cossano Belbo, nelle Langhe di Cesare Pavese. A sedici anni seguì in Brasile il padre, produttore di spumanti. «Dovevo restarci per poco. Ci sono rimasta una vita». Facendo l’avvocato. Vedova, tre figli più nipoti, sul love affair con Ungà aveva sempre mantenuto un certo riserbo. «Una volta ne accennai a mio marito, ma lui mi fece capire che preferiva non saperne nulla». Che un anziano signore svalvoli per una ragazzina è un grande classico, ma il contrario un po’ meno. Perché lei perse la bussola? «Ungà trasmetteva forza a tutto il mio essere. Non mi è più capitato in vita mia. Mi disse: “Nessuno ti amerà mai come me”. Suonava come una specie di maledizione». La passione senile del vecchio per la fanciulla è un mito che fin dalle narrazioni arcaiche si intreccia col tabù. E infatti il loro amore fu contrastato. Ma non da chi t’aspetteresti. «Mio padre non fece ostacolo. Del resto, Ungà lo rassicurava: “Sposerò sua figlia solo quando potrò garantirle un livello di vita come quello nel quale lei l’ha cresciuta”». Quindi si era già ai progetti di matrimonio? «Sì. Le fedi erano pronte.
Accompagnandomi all’aeroporto di Roma, Ungaretti mi disse: “La prossima volta tornerò per sposarti”. È l’ultima immagine che ho di lui». Perché non convolarono? Nel carteggio l’amore si tronca per ragioni un po’ arcane. «Contro di noi giocarono pressioni esterne» dice Bruna. Pressioni di chi? «Di un pezzo della famiglia di Ungà. La figlia Ninon era dalla nostra parte, ma il marito di lei si opponeva. Guarda caso, a partire da un certo momento le mie lettere non arrivavano più, sparivano». Ma anche nell’entourage degli amici c’era chi remava contro: «Cercavano di convincere Ungà che ero una fiamma passeggera come ce n’erano state altre». Dopo la morte dell’amatissima moglie Jeanne, anno ‘58, nella vita di Ungaretti transitano figure femminili passabilmente misteriose e finora poco indagate: l’ex allieva e traduttrice Jone Graziani, l’enigmatica croata Dunja, la funzionaria della Mondadori Nella Mirone... Fra studentesse e groupie veneranti, comincia a circolare l’immagine del patriarca sempre circondato da jeunes filles en fleur. Lo sfottono: «Ungaretti? Insieme a una vecchia non s’è visto mai». Con Bruna però le cose sembravano consolidarsi: «A comprometterle» aggiunge lei, «ci si mise pure il Nobel mancato. Ungà ci contava. Era povero.
E aveva già pianificato tutto: metà dei soldi li avrebbe dati alla figlia, con l’altra avrebbe comprato una casetta a Capri dove saremmo andati a vivere». Ma nel ‘69 il premio venne assegnato a Samuel Beckett. Non esattamente un furto. Però Ungaretti incassa male. Negli ultimi tempi i rapporti con Bruna si sono un po’ sgualciti. Le comunicazioni a distanza non aiutano: «Le telefonate tra Italia e Brasile erano infernali. Avvenivano tramite cavi sottomarini: nella cornetta sentivi solo la voce a singhiozzi e il boato del mare». E poi «Ungà aveva promesso che sarebbe venuto al mio compleanno, ma non si presentò. Mi offesi. Ho scoperto in seguito che gli avevano sconsigliato il viaggio: in Brasile c’era la dittatura e una sua visita non l’avrebbe messo in buona luce nella prospettiva del Nobel».Per giunta, la salute dell’Antico – come lo chiamava il critico De Robertis – peggiora.
Durante una trasferta negli Stati Uniti si ammala seriamente: «Capì che il tempo era scaduto. Anche per questo decise di sparire dalla mia vita. Voleva ridurmi la sofferenza» ritiene Bruna. Dalla traduzione di Pindaro alla pubblicazione del carteggio, tanti progetti rimasero mozzati. Ma tra loro non fu solo amor intellectualis. «Gli abbracci di Ungà erano un orgasmo totale» ricorda lei con immutato brivido. Mi racconta di quella volta che giravano per il Brasile dormendo in camere separate, sorvegliati da una governante: «Una mattina Ungà mi dice: “Accompagnami a comprare un pigiama”. E io: ma non ne hai già due? E lui: “Sì però stanotte ho avuto due polluzioni e per la vergogna li ho fatti a pezzi entrambi”». O quell’altra volta «che alla Galleria Borghese mi vedeva girare intorno alla statua di Paolina scolpita da Canova e a un certo punto esplose: “Toccala, toccala! È l’unico modo per capirla!». I
l biografo Leone Pic cioni ha scritto che per tutta la vita Ungaretti rimase un poeta d’amore. Scisso fra “sensualità” e trasfigurazione. Nelle ultime lettere la passione ulula: «Sono furente d’amore. Urlo come una belva»; «Ti percorro tutta, sino a insediarmi nell’anima Tua»; «Ti amo con una furia che mi martirizza»; «Ti bacio i piedi, li ho nelle mani, bei piedi nudi come quella sera ch’ero un fantasma, nella tua camera, dove ti guardavi allo specchio forse nuda». «Vecchissimo ossesso» quale si definiva, Ungaretti era nato ad Alessandria d’Egitto dodici anni prima che finisse l’Ottocento. Ma, dalla Parigi epica delle Avanguardie alla Grande guerra – che combatté da anarco-interventista – e oltre, incarnò il Novecento come pochi. Eroici furori e accecamenti inclusi. Nella folle corrente del suo secolo volle restare immerso fino all’ultimo, anche fuori tempo massimo: coi denti traballanti e i piedi rinfrancati dagli unguenti del Dr. Scholl’s. Perciò nelle lettere a Bruna lo vediamo approvare la pop music, che «esprime la violenza del nostro tempo»; «riporta alla natura… è reazione alla meccanizzazione dell’essere umano». O simpatizzare col guru dei beatnik Allen Ginsberg, di cui soffre però l’esibizionismo smodato e soprattutto quell’accidenti di cembalino da hare krishna, plin-plin, «non la finiva più».
Ungà prova la marijuana, ma non gli dà «nessuna gioia meravigliosa», «toglie forze e rimbecillisce. Alla larga, alla larga». Sta sempre in mezzo ai giovani, ammira La Chinoise, il film “maoista” di Jean-Luc Godard, però teme il nichilismo del ’68 parigino: «Il Francese è popolo dalle grandi ire e poi succeda quello che ha da succedere, purché la Sua ira riesca a sfogarsi». I contestatori? «Gridaioli per stupidissimo snobismo», si scagliano «contro tutto quanto è stato fatto dalla civiltà prima del loro arrivo di “presuntuosi ignoranti”». «Sono il vuoto schiamazzante e vogliono il caos». Ungaretti si considera «un cristiano di estrema sinistra», ma vota la Dc, non proprio a sinistra, di Attilio Piccioni. È stato grande amico di Mussolini e, quantomeno al principio, ha creduto nell’energia rigeneratrice del fascismo, però si rimprovera la «passiva complicità» sotto il regime, che comunque nel ’42 lo nominò Accademico d’Italia. Nei turbolenti 60, è divertito dalle metamorfosi dei costumi («La minigonna la portano qui le giovanette tagliata subito dopo il sedere. Sono tagliate molto bene, portate con molta iattanza, e fa piacere vederle portare con tanta disinvoltura e sfida»). Però resta pur sempre un uomo classe 1888, e dell’omosessualità per esempio scrive: «Il male è diffuso, e si diffonde in modo da mettere allarme e spavento». Di Pasolini annota che «sebbene pederasta e anche perché pederasta, riesce ad essere vero poeta, diventa puro, anche se della purezza del demonio…». Ciò premesso, «la pederastia mi ha sempre fatto ribrezzo». Ungaretti ha un’alta considerazione di sé: «Sono l’ultimo poeta vero che abbia il mondo»; «La mia poesia non è confrontabile alle altre, sono in anticipo su di esse di almeno cinque secoli, e, per la perfezione ne potrebbero essere emuli solo i Greci». Con Montale ha sempre avuto rapporti ondivaghi. Negli accessi di bile gli ha dato del «pidocchio che mastica le sue caccole» (si veda il carteggio con l’amico Jean Pau lhan), ma poi si è più o meno arreso alla sua arte. Invece non sopporta Quasimodo: «Mediocre poeta che ha rifatto continuamente la mia poesia dannunzianeggiandola». Quasimodo che nella corsa al Nobel ha pugnalato Ungà denunciando i suoi trascorsi fascisti, «calunniandomi politicamente, facendosi passare per un fiore di santità quando era tutt’altra cosa». Per indole, ma anche per smarcarsi dalla Trimurti dei suoi competitor – Montale, Saba, Quasimodo – ancora circonfusi di una distante aura borghese, Ungaretti sceglie il Moderno di quella che oggi diremmo la mediatizzazione: legge le sue poesie in tv e Omero nell’Odissea versione sceneggiato, incide dischi con la Rca, poco prima di
UNGARETTI BRUNA BIANCO LETTERE
morire appare perfino in un proto-videoclip per la canzone della Zanicchi Un uomo
senza tempo che la grande Iva gli dedicherà. Non è la più indimenticabile delle sue hit. Faceva: «Non esiste un altro uomo/così caro come lui/Sogna ancora ad
occhi aperti/e non ama la tristezza... Caro, caro vecchio mio...». Vecchio un corno.
2. SONO IN TUO POTERE
In anteprima, pubblichiamo qui tre delle lettere di Giuseppe Ungaretti a Bruna Bianco, ora raccolte in volume. Nel libro, la prima missiva del poeta è datata 14 settembre 1966, l’ultima, inviata da Parigi, 14 aprile 1969.
Di solito il lunedì arrivano le Tue lettere, anche il giovedì, e me le porta a casa D' Amico, venendo al suo lavoro. Non so per quale disguido questa volta - o non avrai scritto dopo avermi scritto tanto, 3 volte, inviandomi le tue poesie - non c' era nulla, e nemmeno martedì. Lo stato di pazzia, di sofferenza, di disperazione nel quale mi ha messo quella mancanza di tue notizie, è indicibile. Sta succedendo in me un fatto straordinario. Sono innamorato come un ragazzino, e non ho più da un secolo l' età, ed è assurdo - e faccio quello che facevano - non so se lo facciano ancora oggi gl' innamorati al loro primo amore -: andavo fuori di casa, correvo per le strade, telefonavo senza motivo a gente che cascava dalle nuvole quando chiedevo, senza chiedere altro, scusa d' averla disturbata. Aprivo un libro e lo richiudevo, dopo avere letto tornato a leggere cinquanta volte senza capirci nulla, la stessa frase; prendevo un foglio di carta, e ci facevo, senza accorgermene, scarabocchi, e, senza accorgermene, ne facevo una pallottola, e la seminavo per la stanza; ero in uno stato di nervosismo che m' impediva di camminare e di stare fermo.
Hai fatto un bel lavoro, Luce mia. Ora che cosa sarà di me?
Sono in tuo potere.
Un vecchio, sai quello che è un vecchio? Tutto il suo vigore, tutta la speranza, via via l' andavano consumando e riducendo in spettri, i ricordi. No, non è vero che il ricordo sia cordiale, il ricordo è crudele, consuma una persona a lento fuoco, insiste e giubila nel tormentarla, nello straziarla. Ma questo vecchio qui che Ti scrive, non ha più ricordi. Sei / venuta. Perché sei venuta? E i ricordi gli li hai spazzati via. E prima c' è stato in me un gran vuoto, un deserto, un morire di sete. E poi è sorta la primavera d' un ricordo. Come farà a rimanere solo solo, così delicato, così verde, così fiorente, incolume in quelle sabbie squallide? Il tuo ricordo, e domani ancora la tua presenza?
Amore, amore mio. T' accorgi, non ho più vergogna di gridarlo. Pietà di me, sì, perché la mia ora dovrebbe essere passata.
Amore, amore mio.
Roma, il 26/10/1966 L' indirizzo rimane sempre presso D' Amico.
Devo muovermi sempre. Prima a Firenze, poi a Parigi, poi forse in Svezia e a Mosca, ecc.
In anteprima, pubblichiamo qui tre delle lettere di Giuseppe Ungaretti a Bruna Bianco, ora raccolte in volume. Nel libro, la prima missiva del poeta è datata 14 settembre 1966, l' ultima, inviata da Parigi, 14 aprile 1969.
le lettere.
3. LA VILLA DOVE STO
Tra Grottaferrata e Frascati, a mezza strada, è un luogo quasi nella solitudine, ora abbaiano i cani, e qui ci sono i Jaguars, giovani "beat", di Ciampino, che grattano e picchiano gli strumenti elettrici a più non posso e cantano a squarcigola [sic].
Simpatici giovani, che non sanno leggere una parola di musica scritta, e dicono che essa inciampa a chi la studia, con tutte le sue regole inutili, l' ispirazione, e hanno forse ragione.
Hanno studiato sul magnetofono e sui dischi, a orecchio, e bisogna riconoscere che il loro è un pandemonio, ma quella come la loro, è forse la sola musica che sia dei convenga ai nostri tempi. Io, salvo Bach qualche volta, e Nono, non ne posso più sopportare altre.
/ È musica che riporta alla natura. È musica di reazione alla meccanizzazione dell' essere umano d' oggi, è un ritorno a una primitività, eppure quel chiasso che stordisce e di cui m' arriva qui, nella mia stanza, una specie di ululo assordato, non sarebbe, senza il rafforzamento e il nervosismo che mettono in orgasmo, imposti al suono dall' elettricità, - non sarebbe che un molto qualsiasi pasticcio di cosucce rubacchiate qua e là a tutti quanti, senza distinzione nemmeno di paese o di tempo. Cosettine orecchiate e rese nuove dal chiasso disumano dell' intervento elettrico. L' uomo credeva di avere recuperato l' orecchio, e all' orecchio poi rompe i timpani con il ricorso a un barbaro mezzo nuovo. Bel lavoro. Eppure in musica non mi piace quasi altro. È sabato notte, e anche domani dopo pranzo sarà lo stesso, e le sale di sotto, sale, come ogni vano della villa, ammobiliate con lusso e gusto, sono piene di gente venuta a ballare. Ho dato un' occhiata. Belle persone, certo, e l' Italia ne è persino troppo ricca. Sono scappato su in camera mia a scriverti, n' importe quoi, anche stupidaggini purché possa stare con te, illudermi di averti, nel silenzio, accanto, e di parlarti piano all' orecchio: insomma, perdonami tante chiacchiere che occorreva facessi: dovevo dirti "T' amo".
/ Non mi stanco affatto a scriverti, anzi mi riposo, mi conforta, ritrovo equilibrio, mi metto a sorridere tra me e me, mi metto a ballare, io che non ho mai ballato, è un ballo che ballo dentro di me, un impazzimento, un tripudio, e ti guardo, ti guardo, ti guardo all' infinito ad ogni sillaba che traccio e che ti è rivolta. Vorresti privarmi dell' unica possibilità di vivere che mi resta? Vorresti uccidermi? No, no, non è questo mio scriverti che può essermi di peso e stancarmi, l' opposto anzi è, è la guarigione, è la salute, è la libertà. Lo sai bene che l' unica libertà che possiede una persona umana è quella d' amare, la mia libertà è che tu abbia voluto che t' ami, dedicandomi amore. Vorresti togliermi ogni libertà? Lasciami ch' io ritrovi forza, quando sono stanco, almeno, giacché sono lontano, scrivendoti, amore.
Ora vado a letto, sperando di prendere subito sonno e di sognarti, e se rimanessi sveglio continuerei a conversare con te dell' unica cosa seria al mondo, dell' amore nostro. Buona notte, ti tengo stretta sul mio cuore, ti bacio, ho potuto scriverti, dormirò bene stanotte sognandoti.
Il tuo innamorato, ti bacia, Bruna mia.
Grottaferrata, sabato notte, il 25/2/1967.
4. AMORE
Amore, non vado che per un giorno a Spoleto. Qui tutto il mio lavoro è per aria, e non so che cosa penseranno di me gli Editori.
Marianni accettando quel lavoro del festival, proprio nel momento in cui avevo più bisogno di lui, mi reca un danno incredibile, oltre alla figura ridicola che mi fa fare con gente ch' era solita considerarmi puntuale.
Domani sera c' è il Premio Strega. Dopodomani assegniamo il Premio Sila, di cui sono Presidente. Bisogna che mi liberi di tutti questi fastidi. Me ne libererai te.
Vado e vengo, e non so se il 17 luglio potrò essere a Genova per salutare il tuo Papà, e se mi riuscirà di rivederlo prima a Torino. Farò di tutto. Gli scrivo. Non è affatto come credevo che fosse. È un uomo tenerissimo. Gli voglio un bene infinito.
/ Ritorni sempre su quel problema degli accordi. È semplice.
Dobbiamo trovare il modo di unire nel modo più regolare le nostre vite. Ora hai capito?
I giovani qui in Italia, e anche in Brasile, quelli veri, mi trovano il più giovane di loro. Vivo in mezzo a loro. Bada, chi mi accusa di vecchiaia, è nato vecchio, anche se ha la giovinezza dei somari. Sono in realtà vecchio. Il corpo non è stanco, anche se porta il peso di tanti anni. L' anima è ancora quella d' un fanciullo, bambina come la tua, pura come la tua. Sono in realtà vecchio. Ma rido e piango come un bimbo, senza essere un rimbambito; ma una persona che sogna con la virilità necessaria per dare alle cose un' immortale bellezza. Sai che cosa significhi la poesia, sei la poesia, e sei più che la poesia, sei inventrice, rinnovatrice di poesia. Certo ho molti anni. Non so quanti ancora da vivere. Forse pochi. E su questo punto, quando dovrai prendere la tua decisione, sarà bene tu rifletta.
/ I piedi sono guariti. Sono diventati belli come quelli d' un giovane atleta, pronti a correre, e non ho mai l' affanno, e leggo e scrivo senza occhiali.
Amore mio, come sei bella. Come è bello guardarti arrivare con il tuo piede danzante. Sei tanto lieve nell' incedere, tanto graziosa nella parola, tanto incantevole nelle tue mani adorabili che sanno, se stringono le mie, infondermi la forza dei ventanni [sic].
Ti amo. Sono ai tuoi piedi come uno schiavo, per ubbidirti, per non ascoltare che la tua voce di poesia, la più bella voce che si possa udire sulla terra, e che hai avuto la misericordia di fare udire a me solo, e che mi farai udire per sempre.
Ti bacio, amore, ti bacio, non so fare più altro, che di continuo baciarti. Ti amo, amore.
GIUSEPPE UNGARETTI salvatore quasimodo riceve il nobel Giuseppe Ungaretti GIUSEPPE UNGARETTI