Laura Putti per La Repubblica
Questa volta Bob Dylan non si è sbagliato. Non si è lasciato abbagliare dal glamour.
Ha affidato le sue musiche alla persona giusta. Non che la grande (e molto chic) Twyla Tharp non fosse giusta.
Ma nel 2006 a Broadway il suo musical The times they are a- changing' chiuse dopo sole tre settimane. Era la prima volta che Dylan concedeva le sue canzoni per uno spettacolo. La Tharp gli era sembrata una garanzia: già nell' 81 David Byrne si era, a ragione, fidato di lei per le coreografie di The Catherine wheels, musical molto speciale diventato poi leggendario.
Ma con Dylan la maionese non riuscì. E ora, a undici anni dallo scacco di Broadway, il musicista Nobel ci ha riprovato: ancora una volta le sue canzoni sono finite in un musical in scena all' Old Vic fino al 7 ottobre. Girl from the north country è scritto e diretto dall' irlandese Conor McPherson, autore di The wire, Shining city e The seafarer, considerati capolavori nel teatro anglosassone.
Girl from the north country è una storia di solitudine, racconta la sconfitta di un' umanità che nel 1929 con il crollo di Wall Street ha perduto il denaro e anche l' anima. Mesi fa qualcuno della casa discografica di Dylan ha chiamato il drammaturgo irlandese e gli ha chiesto di pensare a una produzione teatrale con le sue canzoni.
McPherson non aveva mai scritto un musical, ma l' occasione non andava persa. È andato a colpo sicuro. Ha mandato a Dylan un abbozzo di spettacolo: una storia ambientata a Duluth, Minnesota, nel 1934, sette anni prima della nascita del musicista proprio in quella stessa cittadina. Dylan gli ha subito risposto. «L' idea gli è piaciuta» racconta McPherson alla BBC. «Usa tutte le canzoni che vuoi nel modo che vuoi, mi ha detto. Puoi usare, di un brano, solo una parte, o anche iniziare con uno e finire con un altro».
E quando alla fine del primo atto di Girl from the north country, grazie allo straordinario lavoro del direttore musicale, il compositore Simon Hale (Jamiroquai, Bijork, Madness), I want you si fonde con Like a rolling stone il pubblico è quasi in lacrime.
1934, Duluth, Minnesota. Il buco nero della Grande Depressione ha inghiottito la vita dei proprietari e quella degli inquilini di una pensione economica.
La gestisce la famiglia Laine: il massiccio e melanconico Nick; sua moglie Elizabeth affetta da una demenza precoce che la porta a strusciarsi contro ogni ospite maschile; Gene il figlio alcolizzato con ambizioni letterarie; e Marianne, la figlia adottiva nera, incinta di padre ignoto.
Attorno a loro, su una scena aperta nella quale il mobilio cambia in continuazione, si agita un' umanità solitaria e disperata: un dottore- narratore, somministratore di morfina; un vecchio signore che Nick vorrebbe far sposare a Marianne; un pugile fallito che vorrebbe sposare Marianne; un sinistro pastore protestante; una famiglia con figlio ritardato e una giovane vedova amante di Nick, per la quale, però, lui non lascerà la povera Elizabeth. In scena c' è anche una band - pianoforte, chitarra, batteria, contrabbasso e violino - che suona dal vivo, più alcune voci di supporto a quelle dei bravissimi attori.
I testi delle canzoni sono perfetti per raccontare i sogni di quella gente delle praterie rinchiusa in una pensione dell' America profonda. Tanto che in un momento sembra di essere in un romanzo di Faulkner, o in Furore di Steinbeck (la figlia abbandonata incinta, il predicatore), in un altro in mezzo alla misera borghesia di Piccola città di Thornton Wilder. Ognuno ha il suo segreto, il suo carico di amori infelici, le sue frustrazioni. Ogni personaggio aspira a cose che non otterrà. Il pugile sogna il ring, il figlio alcolizzato un romanzo, il predicatore molto denaro, il vecchio signore di finire la vita con Marianne e la vedova di iniziarne una con Nick. Mentre la coppia un tempo agiata resta insieme solo per quel ragazzone con il cervello di un bambino, il più fragile di tutti, che alla fine della pièce morirà affogato.
Solo la vedova riuscirà a decidere il suo destino: quando Nick, pieno di debiti, congeda gli inquilini e chiude la pensione, anche la sua amante se ne andrà, lasciandolo solo con Elizabeth. Lei sempre a gambe larghe sulla solita poltrona, lui seduto con la testa fra le mani e una pistola sul tavolo. Ogni spettatore può scegliersi un finale. Salvezza o perdizione.
Ma per più di due ore in scena tutti hanno cantato e ballato una ventina di canzoni di Dylan, alcune molto rare: da quella del titolo, la meravigliosa e celebre Girl of the north country del '63, passando per Slow train coming fine anni 70, del periodo della conversione cristiana di Dylan ; per Ain' t goin' nowhere, per Tight connection to my heart che la meravigliosa Sheila Atim (Marianne) canta come mai nessuno prima; per Went to see the gipsy, Is your love in vain?, Jokerman, Sweetheart like you, un frammento dell' infinita Idiot wind, Hurricane, Forever young fino alla più recente Duquesne whistle che apriva Tempest, album uscito cinque anni fa.
Le canzoni sono in versione così classica da sembrare paradossalmente irriconoscibili. Passano dal gospel al country senza mai diventare veramente, completamente Dylan. E anche questo, a lui, deve essere molto piaciuto.