patti smith papa francesco

ROCK IN VATICANO - PATTI SMITH: “NON SONO CATTOLICA MA RICONOSCO IL BUONO E IL GIUSTO IN GRANDI LEADER COME FRANCESCO. LA MIA CANZONE “PEOPLE HAVE THE POWER” ESPRIME MOLTE IDEE DEL PAPA - IL ROCK SI PUÒ CONIUGARE CON LA SPIRITUALITÀ”

Testo di Patti Smith raccolto da Dario Pappalardo e pubblicato da “la Repubblica”

 

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IL rock si può coniugare con la spiritualità? Posso rispondere solo per quella che è la mia esperienza. Per me sì. Perché nella vita non metto le cose in compartimenti diversi. Se hai un lato spirituale, lo porti in tutte le cose che fai: quando tagli il pane, curi i tuoi bambini, scrivi una poesia, canti una canzone.

 

Il rock non mi rende una donna diversa da quella che sono a casa: è solo un aspetto di quello che faccio. Mi piace farmi delle domande, sempre. Quando canto, o compongo, al tempo stesso prego e mi pongo delle domande. Nel mio album di esordio, Horses, la prima canzone , Gloria, è una raccolta di domande: è un’affermazione della propria individualità e una preghiera al tempo stesso. Ma ogni album lo è. In Easter ho scritto una canzone sulla resurrezione.

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In Wave ce n’era un’altra in memoria di Giovanni Paolo I e poi Seven Ways of Going , che è un vero e proprio inno, una preghiera di riscatto.

Credo che la mia canzone People Have The Power esprima molte idee di Papa Francesco e per questo sono felice di cantarla oggi, a Roma, durante il concerto di Natale in Vaticano. Ho sentito un legame speciale con questo papa, sin dal primo momento. L’anno scorso, il 13 marzo, giorno della proclamazione, ero davanti alla televisione con mia figlia.

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Qualche mese prima, ero stata in viaggio in Italia tra i luoghi francescani: Assisi, Arezzo, i dipinti di Giotto, il convento della Verna, l’Umbria, la Toscana. Ho capito così l’importanza che può avere il messaggio di San Francesco nella cultura di oggi. Tra il materialismo dilagante, il disinteresse per l’ambiente e la natura, quell’insegnamento adesso torna più utile che mai. Questo è il tempo perfetto perché qualcuno abbracci gli ideali di Francesco d’Assisi e li metta davanti agli occhi del mondo, mi sono detta.

 

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Dopo poco, Benedetto XVI ha lasciato il suo incarico. Allora ho cominciato a sperare. «Fa’ che il nuovo papa prenda il nome di Francesco», dicevo tra me e me. Poi l’attesa dell’annuncio alla tv americana: quarantacinque minuti. «Fa’ che sia Francesco, fa’ che sia Francesco». Quando il nome è stato pronunciato, mia figlia mi ha abbracciato. «Wow», abbiamo urlato, gioito, ci siamo commosse.

 

Un giorno l’ho visto in piazza San Pietro, tra la folla. L’ho guardato bene: quello che fa non è semplice rispetto dei riti. Lui vuole stare davvero tra la gente. Vuole che gli altri parlino con lui, ridano con lui, gli raccontino i loro problemi. Ora mi ritroverò di nuovo davanti a lui. Ma in realtà non voglio porgli domande personali. Lui risponde già a molte delle mie domande. Anche con il silenzio. Non sono cattolica. Non ho mai adottato alcuna religione in particolare.

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Ma amo riconoscere il buono e il giusto di un leader: apprezzo il Dalai Lama, l’impegno di Jimmy Carter per la pace, il rigore morale di Ralph Nader. Francesco, nella sua semplicità, ci mostra la possibilità di ricostruire il mondo. Gesù ha lavato i piedi dei suoi discepoli, dandoci un esempio di umiltà. Lui fa lo stesso. Ricorda quale sia l’essenza della cristianità: l’amore.

 

Spero che attraverso Papa Francesco la gente scopra una nuova forma di pacifismo. Il suo non è un potere materiale, economico, ma spirituale. Mi auguro che le persone lo capiscano e lo seguano davvero. Sto imparando da lui, sto riscoprendo cose che credevo di sapere già.

 

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Come il rispetto di tutte le religioni, che per me è sempre stato scontato. Lui pure lo sostiene con le parole, ma poi arriva al passo successivo: si unisce in preghiera con quelli che credono in un altro Dio. Papa Wojtyla andò in prigione a pregare insieme al giovane che gli aveva sparato. Quella foto sulle prime pagine di tutto il mondo ci ha insegnato la profondità del perdono. Papa Francesco, pur vivendo una situazione personale meno drammatica, ripete miracoli di questo tipo ogni giorno e con quella stessa intensità.

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Quest’anno, per la prima volta, ho composto una canzone per un film: Noah di Darren Aronofsky. Mercy Is (appena candidata al Golden Globe, ndr) è un inno alla speranza. In un pianeta distrutto — quello in cui vive Noè, ma è molto simile al nostro — di generazione in generazione riaffiora il ricordo del giardino dell’Eden, di una diretta comunione con Dio che tornerà. Sembra quasi una canzone da Nuovo Testamento, calata in un racconto, come quello dell’arca, che appartiene all’Antico.

 

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Magari un giorno scriverò una canzone pensando a Papa Francesco, ma è presto per dirlo. Le parole mi arrivano all’improvviso. Non pianifico nulla. Per ora sono felice di essere di nuovo davanti a questo papa e di celebrare così il Natale. Che è una convenzione: non sappiamo il giorno esatto in cui sia nato Gesù Cristo, ma questa festa, al di là della fede, ci porta a pensare all’innocenza dei bambini, ci fa bene.

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Ricordo i miei giorni di Natale, in New Jersey, con i genitori, i fratelli. La semplicità di una piccola casa, l’entusiasmo e l’euforia, la Natività e le candele accese. Mia madre era una testimone di Geova, non celebrava la festa, ma era di vedute molto ampie.

 

Il mio grande amico Robert Mapplethorpe amava trascorrere quel giorno speciale con noi. Lui, proveniente da una famiglia cattolica molto rigorosa e con un padre militare, gioiva di quel caos. Se oggi penso al mio Natale più felice il ricordo corre inevitabilmente lì.

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