“SLOWHAND”, THE END? ERIC CLAPTON CONFESSA IL SUO CALVARIO: “HO UNA PATOLOGIA DEGENERATIVA. NON POTRÒ PIÙ SUONARE LA CHITARRA - MA DOPO ALCOL E DROGA, CONSIDERO UN GRANDE PRIVILEGIO IL FATTO DI ESSERE ANCORA VIVO”
Paolo Giordano per “il Giornale”
Certe volte le parole non bastano. Certe volte bisogna anche mettersi nei panni di chi le pronuncia. Stavolta sono di uno dei più grandi chitarristi della storia del rock, sua maestà Eric Clapton, uno che ha iniziato a suonare per strada e ora è nell' Olimpo dei migliori. «I miei forti mal di schiena si sono trasformati in una neuropatia periferica, per me suonare la chitarra è molto difficile», ha detto a Classic Rock prima che la sua confessione facesse il giro del mondo più velocemente di uno dei suoi assoli.
Una sorta di parkinsonismo che forse non ha neppure un esatto nome clinico ma solo un cumulo di sintomi, una progressiva perdita del controllo di braccia e gambe. Insomma, un calvario.
Settantun anni compiuti da poco. Un tocco inarrivabile, una miscela di eleganza, sinuosità e tecnica quasi sempre affidata a una Fender Telecaster, la chitarra più difficile da accordare, o a una Reverse Firebird che bisogna essere maestri per suonarla visto che non ha interruttori e soltanto due manopole per controllare i volumi. Quando uscì il disco Bluesbreakers with Eric Clapton nel 1966 qualcuno scrisse con il pennello davanti a un cancello della metropolitana di Londra che «Clapton is God», Clapton è dio.
Da allora il dio Clapton ha suonato in vagonate di dischi, in migliaia di concerti, ha inciso alcuni brani che sono ormai super classici (ad esempio Cocaine di JJ Cale oppure Layla) e - proprio lui che è andato poco più avanti della scuola media Hollyfield di Surbiton nella sua Londra a qualche chilometro dalla Royal Albert Hall dove ha suonato decine di volte - è diventato un professore generazionale, un copiatissimo pioniere dello stile.
Ha sempre viaggiato, questo inglese sempre scontroso salvo quando sale su di una fuoriserie, sulla corsia parallela dei virtuosi fini a se stessi, quelli che correvano sulla tastiera per stupire, per impressionare, per gareggiare con gli altri chitarristi. Ha sempre evitato il fraseggio fine a se stesso, l' assolo stupefacente, la scala pentatonica o la progressione di accordi suonati solo per guadagnarsi l’ooohh del pubblico. Dopotutto è «Slowhand», mano lenta.
Il dio ha sempre suonato la musica che arriva dal diavolo, ossia il blues. E lo ha fatto così bene da portare Chuck Berry, che in materia non è proprio l' ultimo degli arrivati, a definirlo «l' uomo del blues». Ora deve fare i conti con la minaccia più grave per un chitarrista, quella che rallenta il flusso delle dita, che ne impedisce il controllo, che frena il dosaggio talentuoso della pressione dei polpastrelli sulle corde. Come per un pittore non riuscire a impugnare il pennello. Un inferno. Una maledizione.
Circa tre anni fa Clapton cancellò alcuni concerti per «un grave dolore alla schiena» e due anni fa si lasciò sfuggire che avrebbe potuto «smettere di suonare dal vivo». Molti, anzi quasi tutti, pensarono agli inconvenienti dell' età o, figurarsi, alla legittima stanchezza di chi da mezzo secolo si esibisce dal vivo da mezzo secolo con enorme successo e strepitosi guadagni. Sbagliato.
Era l' inizio della malattia. «È come se sentissi scariche elettriche che arrivano fino in fondo alla gamba - ha detto - e devo fare i conti con l' idea che la situazione non è destinata a migliorare». E non è un caso che il suo ultimo disco si intitoli I still do, lo faccio ancora: è l' urlo disperato, quasi rassegnato, di chi ha vissuto grazie alla punta delle proprie dita e alla sensibilità che le muove e ora se le sente sfuggire pian piano senza poterle richiamare indietro. Certo, forse si compie il destino dei suoi geni. Oppure è la perfida conseguenza degli stravizi che hanno accoppiato Eric Clapton a Keith Richards sulla strada dei maledetti del rock.
«Una volta mi hanno portato all’ospedale di Saint Paul nel Minnesota perché, all' apparenza, stavo morendo: avevo tre ulcere e una di queste stava sanguinando. Era un periodo nel quale bevevo tre bottiglie di brandy al giorno e ingurgitavo un sacco di codeina, insomma stavo per andarmene».
Roba del passato, ma neanche tanto.
«Ora che mi sono ripreso dall' alcolismo e dalla dipendenza da stupefacenti, considero comunque un grande privilegio il fatto di essere ancora vivo», ha detto a Classic Rock salendo sul trampolino per una nuova ripartenza: «Per qualche ragione sono stato respinto dalla bocca dell' inferno e ho un' altra possibilità». E se la giocherà, vedrete, a modo suo: mettendo il cuore dove le dita non arrivano più.
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