SORRIDI, SEI SU INSTAGRAM – VIAGGIO A MENLO PARK, CALIFORNIA, DOVE 200 ASSATANATI FANNO GIRARE IL BUSINESS DEL SOCIAL DELLE FOTO – TRE ANNI FA FACEBOOK L’HA COMPRATA PER UN MILIARDO DI DOLLARI E IL NUMERO DI ISCRITTI RADDOPPIA DA UN ANNO ALL’ALTRO
Riccardo Staglianò per “la Repubblica”
Il primo record, che condivide con la casa madre Facebook, è quello del numero di parcheggi attrezzati per auto elettriche. La sede di 1 Hacker Way, strada così ribattezzata per volontà di Mark Zuckerberg in persona, è circondata di Prius, Nissan Leaf, Tesla attaccate a grossi tubi che sembrano pompe di benzina, ma sono cavi elettrici. Il secondo primato è quello del rapporto tra numero di dipendenti e valore della compagnia. Quando, tre anni fa, Instagram fu comprata dal social network per un miliardo di dollari aveva soltanto tredici impiegati. I cronisti più attenti fecero notare che faceva 77 milioni ad addetto, uno dei valori più alti di tutti i tempi. Tre volte di più dei già preziosi colleghi di Facebook, 15 volte quelli di Apple o Google.
Prima domanda: erano fenomeni loro o stava impazzendo il mondo? Corollario: il capitalismo digitale produrrà ricchezze da Gulliver con organici lillipuziani? Siamo andati a vedere. Se non fate parte dei suoi 300 milioni di utenti, raddoppiati nell’ultimo anno, quasi due terzi dei quali non americani, dovete sapere che Instagram è un’applicazione per smartphone che consente di condividere immagini. Quadrate, come le vecchie Rolleiflex o pPolaroid. Cui potete aggiungere dei filtri per migliorarne l’aspetto («sfuocati sembriamo tutti belli» ha commentato Andrew Keen nel libro Internet non è la risposta ). E poi postarle e farle commentare a chi vi segue.
Kevin Systrom, un programmatore alto più di due metri reduce dal naufragio di altre idee imprenditoriali, era al mare in Messico con la fidanzata nell’ottobre 2010 quando gli venne l’idea. Voleva condividere quei bei tramonti di fuoco. Il primo giorno scaricarono la app 25 mila volte.
Il resto è storia. Oggi la reception dell’edificio 4 è assediata da torme di ragazzini che aspettano un pass. È la giornata annuale dedicata ai figli dei dipendenti e il campus sembra provincia di Disneyland. James Quarles, il capo globale del marketing, potrebbe essere un attore, tipo Jude Law. È stato assunto nell’autunno scorso, per mettere a punto il dispositivo pubblicitario dell’azienda finalmente lanciato pochi giorni fa.
Quindi, cosa avevano di così straordinario i magnifici tredici? «Beh, il mercato ha tenuto in considerazione che l’apparentamento con Facebook dava all’azienda il potenziale di raggiungere oltre un miliardo di persone. E non per un clic e via, dal momento che un nostro utente usa in media la app 21 minuti al giorno». Comunque, oggi i tredici sono diventati duecento. Occupano il pianterreno di questa palazzina, aderendo ai dettami del nerd style , con gli immancabili pupazzetti, palle da football, monopattini bene in vista sopra o sotto la scrivania.
Cosa fanno? «Ci sono quattro unità. La programmazione, per migliorare il funzionamento. La community, ovvero una squadra editoriale che prova a individuare i più promettenti tra gli autori delle 75 milioni di foto postate ogni giorno. Poi il supporto, ovvero coloro che controllano che le immagini corrispondano alle nostre linee guida. In ultimo il marketing, dove lavoro io, che serve i brand e tutte le aziende che, soprattutto da ora in poi, vorranno fare affari con noi».
Riassumendo, ci sono gli ingegneri, i talent scout, i moderatori e infine quelli che dovrebbero portare i soldi a casa, insegnando alle aziende come mettere in piedi della campagne pubblicitarie «esteticamente coerenti con l’ecosistema di Instagram». Ovvero, che spieghino a chi vuole pubblicizzare un dimagrante per la pancia di essere molto scaltro, perché la qualità visuale di Instagram sin qui è stata piuttosto alta e rovinarla è un attimo (chiedetelo all’attrice Lindsay Lohan che, postando una scritta in arabo, era convinta che significasse «sei bella» e invece era «sei un asino»).
Soprattutto il giuramento iniziale di Systrom era stato di creare una piattaforma dove apprezzare belle immagini, non scatti furbetti della Turkish Airlines come quelli che Quarles orgogliosamente mi mostra.
D’altronde prima o poi doveva succedere. Rbc Capital Markets ha già calcolato che la raccolta pubblicitaria porterà nel 2015 tra gli 1,3 e i 2,1 miliardi di dollari, a seconda di quanto presto partiranno le campagne. La vera arma finale, ancora da testare, saranno i
click-to-buy , ovvero i link dentro le immagini che consentiranno di andare subito a comprare la merce.
Sino a oggi le superpotenze di Instagram erano le celebrità, personaggi legati alla moda e grandi fotografi. Il diligente Quarles mi fa qualche esempio italiano meno scontato, come Perry Colante, ossia Andrew Zonzini, un illustratore che crea delle scenette surreali a tinte pastello che hanno conquistato 63 mila seguaci. Oppure il direttore creativo Simone Bramante, in arte Brahmino, che un paesaggio stilizzato alla volta (ne ha postati 850) ha creato un esercito globale di 610 mila followers. Poi ci sono i più ovvi Balotelli, Juventus o Expo che si sono costruiti una reputazione instagrammiana senza cacciare un soldo. Ma che, pagando, potrebbero potenziare la propria visibilità in un ambiente assai più giovane Facebook.
L’argomento dei tredici dipendenti non potrebbe eccitare meno il padrone di casa. Kodak, che assolveva alla stessa funzione (condividere immagini), ne aveva 140 mila. A Quarles il paragone non piace. Dice che le tecnologie «disgregano » i vecchi schemi e creano «valore per il consumatore ». Dimenticando che per essere consumatori bisogna prima guadagnare qualcosa, come sanno sin troppo bene le migliaia di licenziati di Kodak, fallita due anni fa. Preoccupazioni volgari che scivolano via in questo felice mondo foderato di Teflon.
I bambini gridano di gioia. Le mense sono gratuite, compresa la gelateria in cui prendere quanti gusti vuoi, quante volte vuoi. C’è anche una macchinetta automatica che, al posto di bibite e tarallini, distribuisce dischi esterni da due Terabyte e tastiere wireless. Teoricamente c’è un prezzo, ma i dipendenti non lo pagano. Il datore si fida che nessuno esageri. Diecimila dipendenti che valgono 230 miliardi di dollari. Negli anni ‘80 General Motors ne valeva tra un quarto e un quinto. E ne impiegava trentacinque volte di più. Qualcosa è cambiato. Non solo nell’energia che alimenta le auto.
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