STÙM, STÙM, STÙM: FANGO E RITMO - IL BLUES ELETTRICO DI MUDDY WATERS CHE ISPIRÒ I ROLLING STONES E BOB DYLAN E SPAVENTÒ JIMI HENDRIX: “IL SUCCESSO? SONO FELICE CHE SIA ARRIVATO PRIMA DI MORIRE, È UNA BELLEZZA”
ERIC CLAPTON - MUDDY WATERS - JOHNNY WINTER
Fabio Genovesi per “la Lettura - Corriere della Sera”
Stùm, stùm, stùm: questa storia inizia così, e così finirà. Con un bimbo seduto sulla riva del Mississippi, che batte uno stecco sul fango per dare ritmo alle sue canzoni.
Si chiama McKinley Morganfield, ed è nato il 4 aprile 1913, o ’14, o ’15. L’anno preciso non si sa, e nemmeno il posto, forse Rolling Fork o la Issaquena County, dove nuotano gli alligatori più giganti del Mississippi e una volta erano tutti schiavi.
La mamma è morta quando McKinley aveva sei mesi e il babbo era già scappato da un pezzo, ma a lui non importa: «Non puoi spendere quel che non hai», canterà un giorno, «non puoi perdere chi non hai avuto mai». Vive con la nonna in una capanna nella piantagione di Stovall, niente luce elettrica né acqua corrente, passa i pomeriggi sul fiume a rotolarsi nel fango e ogni tanto prova pure a mangiarlo. Per questo la nonna lo chiama Muddy, e gli regala un’armonica: così magari gioca con quella in bocca, invece della terra.
Anche se tempo per giocare ne ha poco, a otto anni già raccoglie il cotone nei campi, e intanto impara le canzoni dei grandi che lavorano intorno a lui. Cantano per darsi un ritmo, cantano per mettere melodia nella fatica. Poi cresce e scopre le baracche dove nel fine settimana ci si sfoga ballando tutta la notte.
Qua si beve il moonshine distillato di nascosto, qua passano musicisti veri, e Muddy resta folgorato da Son House, l’ex predicatore che si è dato al blues e suona la chitarra come se prendesse a schiaffi un peccatore. Il mattino dopo vende l’unico cavallo che ha, compra una chitarra e, quando non sta al lavoro sul trattore, lo trovi lungo le strade sterrate e nelle baracche, a suonare per qualche spicciolo.
A 18 anni sposa Mabel, che però se ne va alla nascita del primo figlio di Muddy, visto che la madre non è lei ma un’altra ragazza della piantagione. E altri problemi si profilano all’orizzonte un sabato di luglio del 1941, quando un’auto si ferma in una nuvola di polvere davanti alla sua capanna. Scende un bianco, e se un bianco ti cerca non è mai una bella cosa. Questo però è Alan Lomax, e gira le lande sperdute del Sud registrando le canzoni dei campi per la Library of Congress.
Cercava Robert Johnson, l’uomo che ha venduto l’anima al Diavolo per suonare il blues come nessuno. Ma i patti col Diavolo — si sa — sono pieni di clausole impegnative, e Johnson è morto accoltellato o avvelenato. Però c’è questo ragazzo che suona tutto solo fuori dalla sua baracca, con un collo di bottiglia che va su e giù lungo le corde e dà alla chitarra un suono che sembra una voce, acuta e dolente come la sua è calda e profonda. Lomax lo registra, poi gli regala due copie del disco, 20 dollari e una convinzione: Muddy è un vero uomo di blues.
E più diventa bravo, più le baracche lungo il Mississippi gli stanno strette. Continua a riascoltare le sue canzoni, e non ci dorme la notte: ha inciso un disco, sì, ma lo trovi solo in una biblioteca. Che è il posto dove si custodisce la storia, e invece Muddy la storia la deve ancora scrivere. Ci pensa, e non può stare fermo. Ha scritto pure una canzone, Rollin’ Stone , per dire che lui è come una pietra che rotola e non si ferma mai. È il 1943, passa un’altra notte a suonare e pensare, e all’alba ha deciso: saluta i campi, il suo fiume fangoso e la terza donna che ha sposato, salta sul primo treno verso nord e se ne va a Chicago.
Palazzi giganteschi, insegne luccicanti, strade piene di gente che corre e taxi che suonano il clacson, e Muddy si sente come su Marte. Dorme sul divano della sorella e trova lavoro facendo consegne su un camion. Che non è tanto diverso dal trattore giù nel Mississippi, ma la differenza la fanno le notti, quando va a suonare nei club della città. Tanto più grandi delle baracche del Sud, pieni di persone che chiacchierano e ascoltano il jukebox.
Un inferno di rumore che la sua chitarra acustica non può affrontare, il suono si perde nel nulla. E allora, per pura necessità, Muddy fa un passo che rivoluziona il suo blues e la musica in generale: abbandona la acustica e passa alla chitarra elettrica, amplificandola al massimo, insieme a una band che picchia fortissimo.
E il pubblico dei club finalmente lo sente, si volta, spalanca occhi e orecchie a questa forza selvaggia, sporca di fango e di vita, alla musica vera del profondo Sud, calda e grezza come lui l’ha imparata nei campi, sparata a tutto volume e con un ritmo incalzante come quello che batteva da bimbo sul fiume. Il blues cambia per sempre, e apre il cammino a quello che un giorno si chiamerà rock’n’roll.
Incide finalmente dei dischi veri con la Chess, la sua fama cresce e crescono i locali in cui si esibisce, fino al 1958 quando Muddy suona addirittura in Inghilterra, per una serie di concerti che saranno epocali e rovinosi insieme. Il pubblico europeo non è pronto alla scarica sonora della sua band, i giornali parlano di «volume esagerato, chitarre che stridono, pianoforte che ulula», e il pubblico vuole indietro i soldi del biglietto.
Muddy torna sconsolato in patria, ma di lì a poco il suo scossone farà nascere la nuova scena musicale inglese. Perché nel frattempo i giovani impazziscono per l’energia della sua musica, e cominciano a suonare secondo la sua lezione. Gente come Eric Clapton, Jimmy Page e Brian Jones, appassionato di jazz che di colpo molla il sassofono e mette su una band chiamandola come il suo pezzo preferito di Muddy: nascono così i Rolling Stones, destinati al successo con quella (I Can’t Get No) Satisfaction che si ispira a un altro suo classico, I Can’t Be Satisfied .
Lo stesso succede in America. Bob Dylan scriverà Like a Rolling Stone , Jimi Hendrix ricorderà Muddy Waters come il primo chitarrista che l’ha impressionato da bambino, «un effetto così forte da spaventarmi». Un’intera generazione di musicisti considera Muddy Waters un maestro, lo adorano e tentano di imitarlo in ogni modo, e lui ne è felice.
Perché sa che questi ragazzi possono ispirarsi a lui, ma non possono rubargli niente: il blues è questo, semplice e impossibile allo stesso tempo. Tecnicamente scarno, ripetitivo ed essenziale nelle forme, diventa grande solo se è grande chi lo suona. Le canzoni sono sempre le stesse, ma insieme sono diversissime a seconda di chi le canta. Il tuo blues sei tu, è la tua vita, il tuo cuore, quel che hai visto e ti ha fatto soffrire, quello che speri e dà gioia ai tuoi giorni.
Ecco perché i ragazzi bianchi di qua e di là dall’oceano non potranno mai suonare come Muddy Waters, ma provandoci finiscono per trovare la loro strada. E il primo a esserne onorato è lui. Dispensa consigli, suona insieme a loro, li considera come figli. Anche se loro diventano stelle mondiali e fanno i miliardi, mentre Muddy arriva a stento a fine mese. Lo ricorda Peter Wolf, altro musicista folgorato dal suo suono, che accompagna Muddy e la sua band in albergo dopo un concerto a Boston: «L’intonaco si staccava dalle pareti, i letti vecchi e scricchiolanti in un hotel infestato dalle pulci. Ed ecco al check-in questi eroi, questi artisti immensi».
Ma se questa sembra a tutti un’ingiustizia, non lo è per Muddy Waters. Che continua a suonare senza pensarci, perché la sua vita è il blues e gli viene naturale come respirare. È lo stesso di quando batteva il suo stecco sul fango del fiume, e cosa importa se gli altri diventano ricchi e conquistano le folle, lui è nato in una piantagione spersa lungo il Mississippi e quel ritmo l’ha portato sui palchi di mezzo mondo, la strada che ha percorso è così incredibile che essere insoddisfatti sarebbe da pazzi.
Eppure nel 1977 arrivano altre gioie: il più bianco dei suoi discepoli, il chitarrista albino Johnny Winter, produce nuovi dischi dove Muddy torna a incantare, entra in classifica e vince sei Grammy, e finalmente gli arrivano un po’ di soldi, un pubblico e una visibilità che da giovane non ha avuto mai. Ma i tempi vagabondi della pietra che rotola sono lontani, e Muddy preferisce trasferirsi a Westmont, nei sobborghi tranquilli di Chicago, una casa modesta nel verde, con quattro figli, quattro nipoti e vari pronipoti.
Sul retro coltiva l’orto, pianta cavoli, peperoncini e pomodori che cura personalmente ogni giorno. Qua lo trova un giornalista, che gli chiede se non è un po’ triste aver raggiunto il grande successo così tardi. E Muddy: «Scherzi? È bellissimo. Sono felice che sia successo prima di morire, è proprio una bellezza». Sorride, e riprende a lavorare in ginocchio per terra, sporco come da bimbo sulle sponde fangose del grande fiume dov’è partita la sua storia, e dove la storia della musica è cambiata per sempre.
Morirà proprio qui, a 68 anni, il 30 aprile 1983. Il suo cuore si ferma, si ferma il respiro e insieme il ritmo che ha scandito la sua vita. E per un attimo si sente solo il silenzio. Poi tutto intorno salgono altre canzoni, altre vite che hanno cominciato a ballare grazie a lui. Musica e vita, vita e musica, ogni tanto una canzone finisce, ma mille altre sono pronte a suonare, con un ritmo fangoso e profondo che non si ferma mai. Stùm, stùm, stùm.
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